Ne avrete sentito parlare, è il rapper senese per antonomasia, un pirata fuggito oltremare e poi tornato. Ma mai del tutto. Da quel di Francia infatti ha portato con sé non solo il nome d’arte, Zatarra (che è uno dei personaggi di Dumas e del suo “Il conte di Montecristo”), ma anche una doppia cittadinanza ideale, quella marsigliese, almeno per quanto riguarda il suo stile piacevolmente contaminato di quel “quoi” dei rappeurs della Francia del sud. Il suo nuovo disco, il quarto, è appena uscito e si chiama “Ad libitum”. Un lavoro dalle tante sfaccettature e dalle altrettante collaborazioni che si è subito contraddistinto per aver messo a nudo un momento delicatissimo della vita dell’autore: il vuoto di ossigeno di fronte alla scoperta di una malattia. Si parla di questo e della capacità di risollevarsi in “Invictus”, il primo singolo estratto dal disco che – ci tiene a sottolineare Zatarra, al secolo Marco Ottavi – è anche tanto altro. «E’stata una scelta sofferta quella di esporre nel primo singolo un’esperienza così intima e ancora vivida ma infine è prevalsa in me la necessità di una condivisione sociale attiva, affinché la mia confessione potesse essere utile ad altri che stessero affrontando la stessa situazione». Il pirata ci attira sempre più nella sua rete e lo andiamo a cercare per fargli qualche domanda diretta. Lo becchiamo per telefono mentre è alle prese con la sua bimba, ancora piccolissima, e finalmente riusciamo a parlarci poco più tardi, in un momento di tregua dai piaceri/doveri di padre.
Marco, il disco “Ad libitum” arriva dopo tre anni dal precedente “Piena consapevolezza”. Cosa hai combinato nel frattempo?
«La pausa di questi tre anni è stata preziosa per riappropriarmi del piacere dell’ascolto, del gusto di godere della musica, quella che mi piace. Ho passato tante serate sul mio divano ad ascoltarne tanta, e diversa: dal Neffa degli esordi col suo album “107 Elementi”a “Quel sapore particolare” degli Otierre, con tanto rap francese, come quello dei Funky Family con “Art de rue” e degli IAM e la loro “École du micro d’argent”. Tante cose sono poi successe nella mia vita privata: la gravidanza della mia compagna e la nascita, conquistata coi denti, della nostra meravigliosa bambina … e poi i problemi di salute che mi hanno messo davanti all’oscurità più profonda, da cui però sono riuscito a tornare a galla».
L’altro ieri un bell’articolo su La Repubblica ha linkato in anteprima il secondo singolo del disco, con tanto di secondo video (“Mediterraneo”). Come mai due uscite in così breve tempo?
«I due pezzi rappresentano due diverse anime del disco che sono agli estremi di un mio percorso di evoluzione personale. “Invictus” rappresenta il momento più buio, il passato, da cui però ho cercato e continuo ancora a cercare di rialzarmi; “Mediterraneo” è la seconda tappa, quella che dipinge il mio presente, sicuramente più disteso e luminoso del primo».
In un verso di “Invictus”, il primo singolo estratto dall’ultimo album, si legge “La poesia dona vita se la vita toglie il respiro”. Una frase molto forte. Possiamo considerarla un manifesto?
«La cultura rap, nella sua corrente originaria che in Italia si è sviluppata tra Bologna e Roma, e quella hip hop più in generale si sono subito caratterizzate per il proprio risvolto terapeutico e la mia scrittura non fa eccezione. Oltre a questo, però, la letteratura mi ha aiutato tantissimo in questo periodo e la poesia, soprattutto quella maudit di Baudelaire e Verlaine, mi ha appassionato come non mai. E’ paradossale come versi tanto scuri abbiano saputo coccolarmi profondamente. E’ un po’ quello che capita col rap, a volte».
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Nella musica e nelle tue letture è sempre presente la lingua e la cultura francese… ma come vivi questa che tutti amano definire come doppia cittadinanza?
«Il francese è qualcosa che fa parte di me ed emerge con estrema naturalezza anche nel mio quotidiano… perfino nelle imprecazioni ormai! Questa sorta di bilinguismo si è sviluppata col tempo, e solo dopo il mio arrivo a Marsiglia nel 2007. Fino ad allora avevo sempre e solo scritto in italiano. E’ stata una evoluzione naturale perché il francese è una lingua molto più musicale, almeno per me: parole tronche, accenti sull’ultima sillaba … un’estrema facilità di rima insomma».
Cosa ha ispirato il titolo del disco “Ad libitum”?
«A differenza di altri titoli che ho scelto in passato, senza un intento ben preciso, questa volta cercavo un simbolo per il Mediterraneo e per la sua grande cultura di cui Marsiglia stessa è emblema. Il legame con la lingua latina è ciò che ci accomuna. “Ad libitum” inoltre ha due accezioni, “a piacere” e “all’infinito”: un messaggio perfetto per questo album che contiene tante citazioni (più o meno esplicite) e tante esperienze, tanti frammenti di vita. Ciò che mi auguro è che lo si possa riascoltare all’infinito e che ogni nuovo ascolto sia utile per cogliere qualcosa di nuovo, una nuova sfumatura. E’ un titolo che mi fa anche tornare col pensiero al passato, ai giorni in cui cominciavo a strimpellare la chitarra e leggevo questa dicitura sugli spartiti, come fosse un monito».
Sul piano musicale invece qual è l’atmosfera del disco?
«Le sonorità di “Ad libitum” sono molto vicine a quella che definirei la cara “vecchia scuola”. Ho privilegiato le campionature, altri suoni come quelli del mare, senza cedere allo scratch o ad altri esercizi di stile. E’ un disco insomma fuori moda, e come amo definirlo, fuori luogo e fuor tempo. Proprio per questo potrebbe non passare mai».
di Angela De Nardis