Alla esplicita domanda di un pessimista curioso (“Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / silenziosa luna?”), il seducente faccione non mosse ciglio. Si avvalse della facoltà di non rispondere, e in quel silente pallore continua a mostrarsi tutt’oggi. Ma già il Leopardi sapeva benissimo che la luna, lassù, non fa un bel niente, se non far smuovere nell’uomo reiterate domande su ciò che, oltre la terra, si percepisce vago e indefinito. Cosicché la luna, per voce umana, è divenuta “astro narrante” (tale è il titolo di un originale libro di Pietro Greco, Edizioni Springer, 2009) al punto che, in letteratura, è cosa assai frequente trovare pagine percorse dal suo lucore. Perché – come diceva il vecchio Qfwfq nelle Cosmicomiche di Italo Calvino – “l’avevamo sempre addosso, la luna, smisurata: quand’era il plenilunio, notti chiare come di giorno, ma d’una luce color burro, pareva che ci schiacciasse; quand’era lunanuova rotolava per il cielo come un nero ombrello portato dal vento; e a lunacrescente veniva avanti a corna così basse che pareva lì lì per infilzare la cresta d’un promontorio e restarci ancorata”.
Persino sopra l’esasperante immobilità della Fortezza Bastiani (Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari) “la luna cammina cammina, lenta ma senza perdere un solo istante, impaziente dell’alba”; e sono ancora selenici bagliori a fendere certe introspezioni psicologiche dei personaggi di Gita al Faro (Virginia Woolf), allorquando “la luna li stupì, enorme, pallida”.
Dentro il paesaggio tragico e tenebroso in cui Verga colloca la vicenda di Rosso Malpelo il protagonista odia invece “il verecondo raggio della cadente luna”, poiché per lui destinato a vivere sottoterra “ci dovrebbe esser buio sempre e dappertutto”. Mentre un’altra luna di Sicilia – quella pirandelliana in Ciaula scopre la luna – illumina l’approdo ad una raggiunta serenità: “E Ciaula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta… la Luna, col suo ampio velo di luce, … ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore”.
Ai silenzi della luna hanno dunque dato parole gli uomini, per rispecchiare in essa le opposizioni e contraddizioni del loro esistere, per tentare di scorciare quella siderale distanza che separa il “lassù” dal “qui”, nella consolante illusione che con Leopardi fa bisbigliare: “Pur tu, solinga, eterna peregrina, / che sì pensosa sei, tu forse intendi, / questo viver terreno, / il patir nostro, il sospirar, che sia”.