Il testo di una canzone può essere poesia? Sull’annoso dibattito siamo ormai giunti a una ragionevole conclusione. La canzone rappresenta una forma letteraria ed è, in alcuni casi, splendidamente poetica, ma non può ritenersi poesia. Ne sono convinti gli stessi cantautori (Vecchioni si definisce ‘un poetastro’) e quanto mai i poeti ‘laureati’ che sostengono come nella canzone il testo abbia un “ruolo ancillare” (Maurizio Cucchi) e leggerlo come fosse poesia significa “massacrarlo, mandarlo allo sbaraglio” (Valerio Magrelli). Guai, insomma, a fare certe operazioni che Edoardo Sanguineti definiva “bric-brac dell’industria culturale”, allorché nelle antologie scolastiche La canzone di Marinella conviveva insieme ai Sepolcri del Foscolo.
A prescindere dalla questione (risolta?), è comunque interessante vedere le implicazioni letterarie e culturali che, a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo, sono sorte in Italia tra poesia e canzone. E’ infatti sul composito humus della seconda metà del Novecento che poesia musicata e canzone poetica assumono caratteristiche precise e addirittura rappresentative di certi fenomeni socio-politici di quegli anni.
Una sorta di processo di ‘acculturazione’ della canzone aveva mosso i primi passi ufficiali con la richiesta di testi, da parte della Rai, a Franco Fortini, Alfonso Gatto, Giorgio Caproni ed Elio Filippo Accrocca. Poi era stata la volta del Cantacronache (1957-1958) con la collaborazione dello stesso Fortini, di Italo Calvino, Gianni Rodari. Nei suoi recital in teatro, Laura Betti cantava testi degli autori appena citati cui si aggiunsero anche Moravia e Pasolini.
Esperienze artistiche rimaste sconosciute al grande pubblico, ma che senza dubbio influenzarono la canzone d’autore. Ad esempio la cosiddetta ‘scuola genovese’ che trasudava surrealismo d’Oltralpe (come nel caso del primo De André), di crepuscolarismo e montaliano ‘male di vivere’ shakerato alla bisogna con un po’ di Pavese (pensiamo a Tenco e Paoli).
Da allora la canzone sarebbe stata sempre più ‘poetica’ e ‘di significato’. La svolta avvenne con il drammatico suicidio di Tenco, quando Salvatore Quasimodo sentenziò: “chi non è in grado di domandare un minimo di intelligenza a una canzone non può certo capire una morte”. Gli fece eco Alfonso Gatto dicendo che lo stolido pubblico sanremese aveva guardato Tenco chiedendosi come mai lui si trovasse su quel palcoscenico anziché starsene “con i poeti delle poesie illeggibili”. Tra canzone e poesia era dunque nato reciproco apprezzamento.