Aveva lasciato Siena con molto amaro in bocca, dopo la traumatica chiusura dell’esperienza del Palazzo delle Papesse. Ora, dopo un quinquennio alla guida della Galleria civica di Modena, Marco Pierini è tra i venti direttori dei principali musei italiani individuati dal ministero della Cultura con un bando pubblico. Sarà il responsabile della Galleria nazionale dell’Umbria di Perugia e di tutto il polo museale umbro. «Un’opportunità molto gratificante, sarà una bella sfida professionale», dice Pierini.
Da Modena se ne era andato sbattendo la porta quando il Comune ha programmato un evento eno-gastronomico alla Galleria civica. Troppo lontano dalle sue idee?
«Più che lontano, direi inconciliabile. Purtroppo è una deriva che ha colpito molte città italiane, è un errore pensare che con il patrimonio culturale si possa fare qualsiasi cosa pur di incassare. Ci muoviamo con logiche manageriali, ma a tutto c’è un limite».
Anche a Siena si disse che le Papesse dovevano essere prima contenute, poi chiuse per problemi di budget. Non si poteva fare diversamente?
«Certo, quantomeno perché era tutto il sistema a dover razionalizzare le risorse. E allora si potevano studiare vie diverse. Quando eravamo già al Santa Maria, realizzammo a costo zero per il Comune una mostra di Francesca Woodman, poi allestita altrove e venduta a Milano».
A quel punto però il progetto iniziale era già compromesso.
«Purtroppo sì ed è sempre una ferita aperta. Mi è rimasta un’esperienza formativa straordinaria, gran parte di quello che sono lo devo al lavoro fatto con splendidi colleghi alle Papesse».
Cosa ha perso Siena in quel caso?
«Ha perso uno dei treni che portavano verso il futuro, una squadra composta da grandi professionisti e uno sguardo sulla contemporaneità che ora le è pressoché negato». (Con la chiusura dello spazio delle Papesse, oltre a Pierini se ne andò da Siena anche Lorenzo Fusi che del centro d’arte contemporanea era il curatore e che oggi è a Monaco come direttore artistico del Premio internazionale di arte contemporanea, dopo essere stato per due edizioni curatore a Liverpool della biennale Open Eye Gallery. A significare, dunque, che da Siena i cervelli sono stati messi in fuga e nemmeno la crisi della città li sta facendo rientrare N.D.R.).
Dove va adesso la gestione della cultura di questa città?
«In una direzione che a me non piace affatto, perché l’unico scopo di quel poco che si fa mira solo al profitto e questo non ha alcun senso. Basta andare in piazza Jacopo della Quercia in questi giorni… Affidare la programmazione culturale a chi dovrebbe gestire i servizi è una scelta sciagurata».
E per il Santa Maria della Scala cosa si dovrebbe fare?
«Bisognerebbe smettere una volta per tutte di pensare a cosa bisogna fare e iniziare a fare. Non c’è da inventarsi niente, il progetto c’è già: un grande museo dell’arte figurativa senese e non solo, che comprenda il patrimonio della Pinacoteca e di altre realtà. In tanti hanno paura della parola museo, ma in tutto il mondo sono spazi freschi, vitali, luoghi di formazione».
Le dispiace non far parte dei progetti senesi?
«Mi è dispiaciuto, ma si lavora anche altrove e non ho spirito di rivalsa. Il vero dispiacere, questo non sanabile, è per come è stata azzerata la nostra esperienza. Lo spegnimento totale e la perdita di tante competenze è stata una cosa orribile».
[Intervista pubblicata su La Nazione Siena del 19 agosto 2015]