Ci risiamo. A distanza di nemmeno tre mesi la Val d’Orcia torna alla ribalta delle cronache per aver ospitato un rave party. Nella prima occasione il luogo prescelto dal popolo dell’acid house fu un terreno privato sulle sponde del fiume Orcia, questa volta l’ex fabbrica di ceramiche ormai dismessa e abbandonata in località Torrenieri nel Comune di Montalcino. Circa mille ragazzi – le previsioni parlavano di quattromila – provenienti da tutta Italia, si sono nuovamente dati appuntamento in provincia di Siena per una festa che dovrebbe durare fino a domenica, almeno così assicura il tam tam sui social network.

rave dueNuove feste, vecchi problemi La nascita dei rave risale alla fine degli anni Ottanta, in un clima di generale contestazione politica, in un momento in cui negli Stati Uniti come in Europa i formano controculture tese a denunciare problemi politici, difficoltà economiche e disagi sociali. Un rave illegale mette in scena vari elementi: affronto alla proprietà privata attraverso l’occupaizone di spazi abbandonati delle grandi città e la loro autogestione temporanea, attacco alle forme di produzione commerciale delle discoteche al valore del denaro, ai rapporti sociopolitici di dominio nel governo della metropoli, negazione della “star” come i Dj, autoproduzione come concetto di massa ma anche approccio con empatia e stati alterati di coscienza, ricerca di una consapevolezza comune, grazie alla condivisione di conoscenze su un uso creativo e sovversivo della tecnologia. Prima considerazione. Quanto di tutto questo oggi rimanga nelle motivazioni tra i giovani che organizzano e partecipano ad un rave contemporaneo è tutto da dimostrare. La mia esperienza personale di osservatore mi racconta che a settembre 2014 per alcuni giorni dopo la fine del primo rave, ragazzi giovanissimi vagavano senza meta come spettri lungo le strade della valle senza neppure sapere dove si trovassero. Io stesso mi sono ritrovato, naturalmente per motivi diversi, al pronto soccorso dell’Ospedale insieme ad un paio di questi ragazzi e posso assicurare che è stata una delle esperienze più assurde e ai limiti della negazione dell’esistenza, dell’autodistruzione e dell’autolesionismo che un essere umano possa vivere. Ma qui si entra nella sfera soggettiva dei comportamenti di cui ognuno risponde in coscienza a sé stesso. Certo è che un rave non si improvvisa né, per organizzarlo, si chiedono i permessi. E qui arriva la seconda considerazione. Chi, fra i tanti che spesso intervengono sulle questioni più disparate parlando di tutela di un territorio o di un paesaggio unico e bla bla bla, non s’indigna adesso, di fronte alla violazione avvenuta non solo di un territorio ma di intere comunità e delle leggi dello Stato? E ancora, perché chi dovrebbe sovrintendere all’ordine pubblico non viene messo nelle condizioni di tutelare, oltre alla sicurezze delle persone, anche l’immagine e l’identità di un territorio? Ma il nostro, lo sappiamo, è un Paese in cui la violenza dentro e fuori dagli stadi viene legittimata dalle società di calcio e dallo Stato stesso perché diventano zone franche dove tutto è permesso; il nostro è anche il Paese dove, spesso, manifestazioni di piazza legittime e autorizzate si trasformano in cortei violenti perché si consente l’infiltrazione di gruppi che tutto vogliono meno che manifestare pacificamente. E allora accade anche che una festa non autorizzata e che lascia anche un costo inevitabile alle comunità in termini di sorveglianza, forze dell’ordine impiegate, numero dei soccorritori allertati, condizioni igienico-sanitarie di dubbio gusto e da ripristinare diventi un fatto “normale”, quando di normale, a pensarci bene, non c’è proprio niente. Quante persone, in condizioni di normalità, possono permettersi di organizzare una festa non autorizzata per migliaia di invitati senza incorrere in sanzioni o in un divieto? E allora qualcuno mi spieghi, senza ricorrere alle consueta figura retorica dello “Stato impotente”, come tutto questo sia possibile che accada e soprattutto che periodicamente possa ripetersi. Il tutto nel silenzio, sempre più assordante, delle istituzioni e di quegli ideologi del bello e del bene comune che tanto hanno a cuore la tutela e la difesa del paesaggio.