Con le recenti celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, è stato richiamato più volte il cosiddetto romanzo storico che, giusto nell’Ottocento, svolse una indiscutibile funzione nell’alimentare ideali ed amor patrio, mito romantico dell’eroe, educazione ad una morale e a sentimenti, spinti talvolta fino al patetico. D’altra parte – e compatibilmente con il grado di alfabetizzazione degli italiani – si trattava di una produzione letteraria destinata al ‘largo’ consumo (popolare e populista) che ambiva ad uscire dal ghetto della ‘letteratura di intrattenimento’, collocandosi sulla nobile scia di quei Promessi sposi in cui si era saputo coniugare qualità e popolarità. Sorprese, infatti, quando nel 1845 Manzoni giunse a sconfessare se stesso scrivendo il saggio Del romanzo storico ed in genere de’ componimenti misti di storia e invenzione, e argomentando come il limite di tali libri stesse proprio nella loro inattendibilità storica, nell’alto tasso di falsità in essi contenuta.
Il genere, però, resistette. Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento si piegò (forse snaturandosi) ai temi della contemporaneità, divenne sempre più ‘realista’. Basti pensare a romanzi quali Il ventre di Napoli di Matilde Serao o a I Viceré di Federico De Roberto.
Giungemmo così al secolo successivo e il romanzo storico – o tantomeno l’utilizzo del suo contenitore – si trasformerà sempre più in ‘giudizio storico’. E’ il caso de I vecchi e i giovani di Pirandello (1913), severa analisi del processo di riunificazione dell’Italia visto dalla Sicilia. Oppure ebbe intenti retrospettivi, per ricordare e capire la storia che si era attraversato, come intese fare Riccardo Bacchelli con Il mulino del Po. Per approdare, poi, al ‘realismo socialista’ di Vasco Pratolini, esplicitato nella sua trilogia compresa nel titolo Una storia italiana (il primo dei tre romanzi, Metello, fu pubblicato nel 1952) e dove l’autore pone chiaramente i termini ideologici ed economici della ‘questione di classe’.
D’ora innanzi, perciò, il genere potrebbe definirsi quasi ‘antistorico’, come ebbe a scrivere il critico Vittorio Spinazzola in un saggio di qualche anno fa, portando ad esempio I Viceré, I vecchi e i giovani e Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Pagine che testimonierebbero, appunto, una sorta di ‘antistoricità’, ovvero un nuovo atteggiamento (una ‘dolorosa consapevolezza’) verso la storia, distante dai trionfalismi di Manzoni e Nievo e dalla ottimistica fiducia nel progresso umano.
Con gli ultimi decenni il romanzo storico – o, per meglio dire, ‘neostorico’ – ha visto molti titoli di successo che qui non staremo ad enumerare, per citarne, invece, uno soltanto e così fare omaggio ad uno scrittore recentemente scomparso, Antonio Tabucchi, che con Sostiene Pereira (1994) dimostrò la praticabilità di un genere letterario ancora efficace per asserire la giustezza dei sentimenti l’irrinunciabilità di certe verità storiche e morali. E magari riuscire a farlo con una scrittura precisa, nitida, avvolgente.