di Mauro Taddei

Alla inizi degli anni Sessanta venne istituita la Scuola Media unica a carattere sperimentale. Non c’era ancora la scuola media dell’obbligo, chi voleva proseguire gli studi dopo il ciclo delle elementari, e poteva permetterselo comunque con grossi sacrifici economici delle famiglie, doveva trasferirsi nei luoghi dove la scuola era presente.

Esisteva già la Scuola Media statale (nelle città o comunque nei grossi centri), ma spesso erano scuole private parificate e legalmente riconosciute, aggregate molto spesso a collegi maschili o conservatori femminili ai quali si poteva accedere da esterni. In alternativa, per i meno abbienti, si poteva accedere ai Seminari presso tutte le Diocesi per la formazione dei futuri sacerdoti ma per essere ammessi occorreva la “presunta” predisposizione al sacerdozio.

Per frequentare la Scuola media statale o comunque parificata si doveva superare un “esame di ammissione”, una prova non proprio indifferente per chi aveva frequentato la scuola elementare di allora che, specie nei piccoli centri, nonostante l’impegno dei maestri e delle maestre di allora, assicurava solo un più che decoroso apprendimento per affrontare solo una vita di lavoro quotidiana. La Scuola media era molto impegnativa e selettiva: doveva preparare gli studenti all’accesso alle scuole superiori e quindi all’Università. L’esame di terza media era obbligatorio, scritti e orali. Secondo sbarramento importante per chi voleva continuare gli studi.

Per i “seminaristi”, in caso fosse venuta meno la presunta “vocazione” e volevano fosse loro riconosciuto il ciclo scolastico triennale o quello superiore presso i vari seminari diocesani dovevano dare l’esame di terza media e/o di maturità come tutti, ma da privatisti.

Questa premessa era d’obbligo per giungere agli anni Sessanta. La fine della guerra non era poi così lontana, l’Italia era in piena ricostruzione, grazie anche agli aiuti del così detto “Piano Marshall” che anche oggi si invoca, ma soprattutto c’era un impulso interno di idee e di rinnovamento che, nonostante le divergenze di carattere politico, conobbe, almeno a livello scolastico, una vera e propria rivoluzione. La televisione era in piena espansione, anche se l’apparecchio non era ancora appannaggio di tutte le famiglie. I suoi programmi più popolari venivano seguiti nei locali pubblici, addirittura i cinema delle città si erano attrezzati con apparecchi televisivi per garantire ai propri clienti di assistere alle trasmissioni più note, si pensi a “Lascia o Raddoppia” di Mike Buongiorno, prima delle proiezione del film in programma.

L’ interesse della diffusione di questo nuovo, ancora avveniristico per l’epoca, mezzo di comunicazione, ma soprattutto la visione preveggente di pedagogisti illuminati del tempo e dello stesso Ministero della Pubblica Istruzione, diede il via alla sperimentazione della “Scuola Media Unica per mezzo della Televisione”.

Nacquero così in tutti i piccoli centri d’Italia i così detti “P.A.T.”(acronimo di Posti di Ascosto Televisivi) per mezzo dei quali tutti coloro che uscivano dalla scuola elementare potevano frequentare ed al termine del triennio acquisire la Licenza di scuola media inferiore come tutti gli altri. Fu una vera rivoluzione in campo pedagogico.

Oggi, di questa esperienza se ne è persa ogni memoria. Funzionò fino al completamento del triennio e quindi per nove anni. E dette i suoi frutti positivi: non solo aprì l’accesso alla scuola media inferiore praticamente a tutti quelli che uscivano dalla scuola elementare, ma anche a coloro che abitando nei piccoli centri non avevano avuto l’opportunità di continuare a studiare. Molti ragazzi e ragazze si iscrissero anche in età adulta e riuscirono così ad acquisire il diploma di licenza media che gli sarebbe senz’altro servita per crescere professionalmente nei luoghi di lavoro e/o per continuare negli studi superiori e anche universitari. Non furono pochi.

Nel frattempo si ampliò l’obbligo scolastico fino al 14 anno di età, giunsero a compimento la Scuola di avviamento professionale, alternativa “povera” alla scuola media, e si realizzò la Scuola Media Unica.

Ma veniamo al funzionamento di questi avveniristici, per l’epoca, esperimenti scolastici. Molto semplice. Un docente delle singole materie in programma si collegava per venti/venticinque minuti a livello nazionale a tutti i P.A.T.. Teneva la sua lezione, mentre sul posto un coordinatore (regolarmente incaricato dall’allora Provveditorato agli Studi che aveva attinto tra gli iscritti alle graduatorie provinciali provvisti di laurea specifica o studente universitario), rispettivamente per materie letterarie e scientifiche, assisteva insieme agli studenti alla lezione. Al termine, il coordinatore corrispondente per materia, aveva a disposizione altrettanti altri minuti per approfondire l’argomento, dialogare con i presenti, procedere alle interrogazioni, assistere all’esecuzione dei vari compiti in classe, che periodicamente venivano programmati. L’anno scolastico era diviso in trimestri. Si registravano i voti. Al termine dell’anno scolastico si traevano le conclusioni. I testi di classe erano unici per tutti, forniti direttamente dalla ERI della Rai in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione.

I compiti di classe venivano inviati ai docenti presso la Rai che provvedevano a restituirli con le dovute annotazioni. Il docente/coordinatore locale teneva un regolare registro di classe (“il registro del professore”) e relazionava, con cadenza stabilita, ai docenti di riferimento, per materie letterarie o scientifiche.

A scadenze programmate si tenevano “consigli di classe” (docente e/o docenti Rai con i coordinatori locali) per l’approfondimento delle problematiche emerse, didattica e aggiornamento. Gli uni parlavano, gli altri ascoltavano. Il dialogo era per relazione scritta. Il servizio postale funzionava  bene, nonostante i mezzi di trasporto locale, specialmente nelle zone di provincia, fossero limitati nel numero delle corse. All’epoca le auto di proprietà non erano ancora alla portata di tutti, anche se c’erano già i primi motorini (la vespa, la Lambretta, etc.); i servizi postali  erano dunque utili, anzi indispensabili, e funzionavano evidentemente abbastanza bene e così anche i servizi scolastici. Per completare la rivoluzione scolastica degli anni Sessanta occorreva giungere al 1968. Ma quella sarebbe stata un’altra storia!

Ma torniamo all’inizio. Siamo negli anni Sessanta, dicevamo. Ancora si scriveva a mano, anche i conti si facevano a mano, o a mente come si diceva allora. Le macchine da scrivere o le calcolatrici non erano alla portata di tutti e comunque non erano diffuse sul territorio come lo sono oggi i computer, gli smartphone, connessi con la Rete.

Chi scrive, a suo tempo diretto testimone dell’esperienza come docente/coordinatore di materie letterarie, si pone una domanda.

A questo punto del progresso tecnologico e economico della nostra società, in un momento di emergenza nel quale si annaspa come nel Medioevo alla ricerca di una soluzione per contrastare un “virus” che fa saltare tutto per aria, non sarebbe il caso di ripensare le organizzazioni scolastiche in maniera alternativa o compensativa rispetto alla attuale? Mi associo all’editoriale di Aldo Grasso su Il Corriere della Sera della scorsa di domenica 5 marzo: “Riaccendiamo Telescuola, La Tv Pedagogica”.