Sono sempre di più coloro che progettano le vacanze o i viaggi verso mete non-turistiche, dove c’è spazio, salubrità, socialità spontanea, buon cibo, paesi e paesaggi, dove non ci sono monumenti noti, attrattive massificate, sentieri troppo battuti, altri turisti, cioè dove non c’è niente, secondo la narrazione comune della società dei consumi.
Ovviamente il niente non esiste e se noi rivolgiamo uno sguardo meno distratto all’entroterra, risalendo le valli che dal mare portano alle montagne, ci accorgiamo che l’Italia è in realtà un Paese pieno di risorse, bello e ricco ma fragile, diversificato, policentrico, da maneggiare con cura, pieno di campagne e di paesi spopolati, abbandonati, rimasti soli. Luoghi che adesso, complici la pandemia e la crisi dello stile di vita urbano o metropolitano, stanno tornando al centro dell’attenzione, sotto i riflettori, frequentati. Si tratta di luoghi delicati e fragili, appunto.
Anche il turismo deve tenere conto di questa fragilità, altrimenti diventa un elemento di rottura dell’equilibrio, di snaturamento, di spaesamento. Nel dibattito pubblico e scientifico sono già emerse le problematiche legate al modello turistico dominante: dall’overtourism alle politiche di gestione dei flussi, dalla trasformazione delle dinamiche abitative all’impatto ambientale, palesando l’urgenza di un approccio critico alla turistificazione delle città e dei territori. “Oltre la monocoltura del turismo” è ad esempio il titolo di un convegno che si è svolto a Roma nel 2019, organizzato da studiosi di tre Università (Sapienza, Bologna e Molise).
Le guide del “Nonturismo” è invece il titolo di una collana ideata in Sardegna e pubblicata dall’editore veneto Ediciclo dedicata ai viaggiatori che al tour preconfezionato preferiscono l’incontro autentico con lo spirito dei luoghi raccontati dagli abitanti. A Ussita, nei Monti Sibillini colpiti dal terremoto del 2016, la redazione partecipata di una delle guide del “Nonturismo” propone racconti e visioni di luogo attraverso percorsi inediti che parlano non solo di ciò che un luogo è stato, non solo di ciò che è, ma anche di quello che vuole essere.
Il turismo può certamente essere una delle gambe della ripresa dell’Italia interna, delle zone lontane e dimenticate. Ma il processo deve essere governato per evitare una visione quantitativa dello sviluppo, legata a una crescita costante dei flussi, per non trasmettere una immagine stereotipata dei luoghi e per scongiurare un impatto negativo con le comunità locali, facendo attenzione, in primo luogo, a non accendere dinamiche espulsive dei residenti in favore di un uso temporaneo del patrimonio abitativo e delle risorse patrimoniali ed ambientali ai fini della loro valorizzazione economica, come è avvenuto nella parabola turistica delle città d’arte.
Bisogna essere consapevoli che l’uso turistico e ricreativo dei territori è un potente dispositivo di trasformazione, che rischia di favorire la produzione di uno spazio sociale finalizzato al consumo e all’estrazione di valore di scambio piuttosto che alle esigenze di vita delle popolazioni insediate. Non solo, ma un luogo diventando turistico finirebbe, nella nuova ottica, per ridurre la sua attrattività turistica. Negli ultimi decenni è emerso un turismo meno concentrato, basato sulla differenziazione e la personalizzazione, segnato dalla riscoperta del territorio e da nuove generazioni di turisti – dal gastronauta all’escursionista – organizzato attorno a itinerari tematici, finalizzato all’integrazione settoriale, alla destagionalizzazione, ad un mercato del lavoro meno precario e all’accoglienza del turista in un ambiente di qualità.
L’obiettivo deve essere l’equilibrio, non la crescita progressiva. Per essere realmente sostenibile il turismo non può essere separato dalla promozione della qualità della vita delle comunità insediate. Per questo occorrono consapevolezza, riconoscimento delle risorse locali e politiche di sistema, valorizzazione delle specificità. Solo così sarà possibile trovare elementi caratterizzanti, tratti forti utili anche per comunicare il territorio, per attivare una coerente narrazione di quello che c’è, uno story-telling che diventa place-telling, cioè un racconto dei luoghi che favorisca l’incontro con l’ambiente e la vita locale, che aiuti ad evitare il consumo irreversibile delle risorse, la disneylizzazione delle campagne o forme di “globalizzazione del tipico”.
Questo vale per i prodotti per il paesaggio e per i paesi: è inutile trasformarli in una cartoline stereotipate, per cui chi arriva in un luogo non vede più l’essenza di ciò sta guardando, ma solo l’immagine di ciò che ha già visto prima di venire.
La definizione delle basi strategiche per uno sviluppo turistico deve partire da una conoscenza del patrimonio territoriale e dalla sua trasformazione in buone pratiche per la realizzazione di un’offerta integrata e socialmente partecipata. Quello a cui puntare deve essere un turismo diffuso, lento, destagionalizzato, consapevole, di tipo esperienziale, rispettoso delle peculiarità locali e delle relazioni tra comunità e paesaggio, basato prima di tutto su una coerente integrazione della pluralità di risorse che la natura e la storia hanno sedimentato sul territorio. Si potrebbe dire che la vera prospettiva turistica per le aree interne consiste, in pratica, nel non-turismo o almeno in un altro turismo.
(da “La Fonte”, gennaio 2022)