Se le nostre campagne e i nostri paesi toscani diventassero troppo turistici, cesserebbero di essere appetibili per il nuovo turista. Il punto di equilibrio si può trovare se si riflette su questo, privilegiando forme di accoglienza e di ricettività che non snaturino la natura dei luoghi, che evitino il consumo di suolo e favoriscano l’incontro con la vita locale.
Rossano Pazzagli, storico toscano e professore all’Università degli Studi del Molise non ha dubbi: il turismo è importante come fattore economico integrativo e anche come elemento culturale, ma bisogna fare attenzione.
Professore, nei giorni scorsi un’indagine (Sole 24 Ore) ha mostrato un trend dal 2015 ad oggi, accelerato dalla pandemia, che evidenzia un calo consistente di residenti (-2,4%) delle grandi città italiane. Fra l’altro, spetta a Firenze la maglia nera di questa speciale classifica con -5,6%. E’ così?
Penso che i dati siano reali, ma come sempre i numeri vanno spiegati, come giustamente fa l’articolo del Sole, e a volte le classifiche andrebbero lette al contrario. Intanto occorre vedere quanta parte di questa diminuzione della popolazione urbana è imputabile a trasferimenti verso le zone rurali e quanto invece al saldo naturale negativo che riguarda tutta la popolazione italiana nel suo complesso. Poi, se ci sono regioni o aree dove le città principali perdono popolazione a favore dei paesi e delle campagne, questo mi sembra un bene, non un male. E cerco di spiegarmi.
Quello italiano, dal boom economico degli anni ’50 e ’60 in poi, è stato uno sviluppo squilibrato, che ha concentrato la popolazione nelle città e lungo le coste, svuotando le aree rurali e interne. Tutti sono andati in giù e l’Italia è scivolata a valle. Questo è avvenuto anche in Toscana, dove la popolazione rurale si è spostata verso i principali assi di sviluppo, nei poli industriali e manifatturieri e nei principali centri di servizio, quando non verso mete più lontane. Insieme all’aumento del benessere medio, questo fenomeno ha finito per creare un doppio danno: da un lato gli effetti negativi dell’abbandono e dello spopolamento; dall’altro l’eccessiva concentrazione, la cementificazione, l’inquinamento, lo stress. Ecco perché sarebbe necessario un riequilibrio, un ritorno, una migliore distribuzione della popolazione sul territorio. Questo deve rimettere al centro la campagna e l’agricoltura, senza alimentare un’antitesi tra campagna e città, anzi tessendo nuove relazioni.
Dopo un anno di Covid, è davvero cresciuto il desiderio di vivere nei piccoli centri oppure proseguirà lo spopolamento delle aree interne?
Purtroppo, nelle aree più lontane lo spopolamento continua, ma ci sono anche molti tentativi di riabitare i paesi e le zone rurali. È una tendenza soggettivamente diffusa, generata dalla crisi della vita urbana (specialmente metropolitana) e accelerata dal Covid, che in quanto malattia contagiosa ha colpito più duramente le città e i centri di maggiore concentrazione della popolazione. Questa tendenza al ritorno si scontra però con la mancanza o l’insufficienza dei servizi nelle aree rurali e con politiche non ancora adeguate, nonostante la Snai (Strategia nazionale aree interne), le leggi sui piccoli comuni, ecc. Insomma, si può registrare una ritrovata attenzione per la campagna, ma se non si fanno politiche adeguate, rischia di essere un fenomeno transitorio, che crea più problemi di quanti ne risolve. Le aree rurali non possono diventare rifugi o punti di fuga, ma tornare ad essere luoghi di vita nei quali non si faccia solo smart working o turismo, ma prima di tutto agricoltura e allevamento. Oggi siamo in mezzo al guado: mentre si avverte questa tendenza al ritorno, lo spopolamento delle aree più interne continua. Se riflettiamo bene sulla pandemia come frutto delle contraddizioni del nostro mondo, ci accorgiamo che invertire la rotta è necessario.
A proposito di spopolamento: quali sono state le cause e gli errori fatti nel passato?
Ci siamo dimenticati della parte più consistente del territorio italiano e abbiamo marginalizzato l’agricoltura contadina che nel tempo aveva assicurato la vita all’intera collettività e anche alle città. Sono tramontati vecchi e secolari modelli (come la mezzadria), non più al passo coi tempi, e non ne abbiamo trovati di nuovi. Ci siamo illusi col mito della crescita continua, dell’urbanizzazione e dell’agricoltura industriale. L’errore più grande è stato quello di non considerare le risorse naturali e rurali, sottrarre dignità sociale e culturale alla vita in campagna. Le grandi lotte contadine del Dopoguerra e la Riforma agraria degli anni ’50 sono stati gli ultimi grandi sussulti del mondo rurale, poi con l’esodo rurale c’è stata una progressiva marginalizzazione. Anche la prima PAC ha finito per favorire l’agricoltura del nord Europa rispetto a quella mediterranea, che invece come sappiamo ha caratteri peculiari di produzioni, di organizzazione fondiaria, di paesaggi. Oggi i nodi sono venuti al pettine.
Si può parlare di una Toscana a due velocità?
In Toscana la situazione è meno grave rispetto alle regioni di centro-sud perché ha retto meglio il reticolo delle città e dei paesi. Ma, in effetti, ci sono sempre state e ci sono ancora tante toscane, più di due secondo me. La nostra è una grande regione che deve porsi il problema di un riequilibrio tra le diverse aree in termini di dotazioni di servizi e di infrastrutture. Non è un problema solo toscano, ma italiano. La visione economicista dei servizi pubblici fondamentali (sanità, istruzione, mobilità, acqua, rifiuti, ecc.), la loro mercificazione e aziendalizzazione, ha privilegiato le aree con maggiore popolazione – cioè con più consumatori. Ma le persone non sono solo consumatori, sono prima di tutto cittadini; e la Costituzione stabilisce il principio fondamentale di uguaglianza dei cittadini, indipendentemente da dove questi abitano, se in città o in zone rurali, se nel densamente abitato Valdarno, o nella meno densa Maremma o addirittura in montagna, nel Casentino o sull’Amiata, o in Garfagnana, per fare degli esempi. In Toscana come in Italia occorre tenere conto di queste diversità e nell’azione politica e amministrativa applicare realmente il principio della differenziazione. Per generare uguaglianza non si può trattare tutti allo stesso modo, ma avere un occhio di riguardo per i settori e i territori più deboli.
Quali prospettive possono avere le aree interne, montane e rurali, e cosa fare per il loro rilancio sul piano economico?
Per prima cosa restituirgli il maltolto, cioè riportare i servizi in queste zone per garantire i diritti essenziali (salute, istruzione, mobilità) ai cittadini che ci abitano, che sono rimasti o che vogliono tornare. Poi sburocratizzare. Sono anni che stiamo parlando di semplificazione e tutto si sta complicando, specialmente per i più piccoli, siano essi imprese, comuni o territori. Infime sostenere le imprese che operano nel senso della conversione ecologica, aiutando in primo luogo quelle piccole, collinari e montane. Tutto ciò richiede un cambio di mentalità: tornare a considerare il valore di tutto il territorio e prendere coscienza che l’agricoltura è un settore economico, ma anche un ambito sociale, ambientale e culturale di primaria importanza, nel senso dei valori e dei benefici che porta all’intera società. Si pensi al cibo sano, alla manutenzione del territorio, alla cura del paesaggio, al turismo, ai valori di solidarietà e di vicinato che a lungo hanno contrassegnato il mondo contadino. Ci sono già fenomeni interessanti di ritorno, ma spesso sono spontanei, individuali o familiari. Se non si sostengono rischiano di non durare e di non alimentari processi virtuosi.
Nell’estate 2020 abbiamo assistito ad un turismo praticamente di massa, anche in aree toscane solitamente abituate ad un turismo slow: qual è il punto di equilibrio per la sostenibilità del territorio?
Il turismo è importante come fattore economico integrativo e anche come elemento culturale, ma bisogna fare attenzione. Le aree interne e rurali non sono fatte per il turismo di massa, che purtroppo ha impatti rilevanti sul piano ambientale (si pensi alle coste o alle città d’arte) e incoraggia spinte speculative. Negli ultimi decenni è emerso un turismo meno polarizzato, basato sulla differenziazione e la personalizzazione, segnato dalla riscoperta del territorio e da nuove generazioni di turisti, dal gastronauta all’escursionista, organizzato attorno a itinerari tematici (strade del vino, dell’olio e del gusto, sentieri benessere e della natura, ecc.), finalizzato all’integrazione settoriale, all’allungamento della stagione, ad un mercato del lavoro meno precario e all’accoglienza del turista in un ambiente di qualità. Bisogna pensare che se le nostre campagne e i nostri paesi diventassero troppo turistiche, cesserebbero di essere appetibili per il nuovo turista. Il punto di equilibrio si può trovare se si riflette su questo, privilegiando forme di accoglienza e di ricettività che non snaturino la natura dei luoghi, che evitino il consumo di suolo e favoriscano l’incontro con la vita locale. Occorre quindi guardare alla sostenibilità dei flussi, più che al loro trend quantitativo: non il turismo di massa (quello che si misura con l’entità dei flussi degli arrivi e delle presenze), ma quello dell’esperienza o della saggezza, in una logica di condivisione sociale e di integrazione territoriale.
Che tipo di sviluppo vede nei luoghi che hanno fatto del paesaggio un biglietto da visita?
Il paesaggio è la risorsa apicale, quella che comprende tutte le altre. Emilio Sereni, storico e fondatore dell’Alleanza Contadini negli anni ’50, scrisse che il paesaggio è lo specchio della società. Fu lui a dirci che il paesaggio è il frutto del lavoro degli agricoltori, dei proprietari come dei contadini, che generazione dopo generazione insieme al cibo hanno prodotto il bel paesaggio. La Toscana non sarebbe così se per secoli i mezzadri non avessero coltivato, organizzato e curato il territorio: le case coloniche, le strade alberate, i campi a pigola, i seminativi, la coltura promiscua, i filari delle viti e gli oliveti, le siepi, i terrazzamenti delle pendici, i pascoli e i boschi curati… si può dire che gli aratri, le zappe, le falci sono stati come matite con le quali i contadini hanno disegnato il paesaggio. Un paesaggio resistente, malgrado le insidie che negli ultimi 50 anni gli abbiamo portato, specialmente vicino alle coste, ma non solo. Oggi questa funzione c’è ancora, l’agricoltura è ancora produttrice di paesaggio, oltre che di cibo. Eppure, questa funzione non è adeguatamente riconosciuta e valorizzata. Il paesaggio costruito dagli agricoltori, la loro cura per il territorio sono beni comuni, cioè di tutti. Anche per questo sarebbe necessario che l’intera società si facesse carico di questo. L’attenzione per il paesaggio è la base dello sviluppo sostenibile, che include anche il turismo ma che ha prima di tutto bisogno dell’agricoltura.
Gli esempi più virtuosi in Toscana, professore?
La Toscana è una grande regione agricola, ma bisogna esserne più consapevoli. Cosimo Ridolfi a metà’800 diceva che la Toscana gli sembrava una “immensa città rurale”, dando il senso di una funzionalità e di un sistema integrato che connetteva l’attività agricola con il mondo urbano. Ridolfi era un proprietario fondiario ma anche un politico che promosse l’agricoltura, tanto che gli agricoltori italiani gli hanno dedicato il monumento che si vede in piazza Santo Spirito a Firenze. Oggi ci sono tante esperienze virtuose portate avanti con tenacia da vecchi e nuovi agricoltori. Difficile fare nomi, ma devo dire che specialmente nelle aree interne, collinari e montane, ci sono esperienze che devono essere conosciute e incoraggiate, a partire da quelle che si sono orientate all’agroecologia: dal biologico al biodinamico e tutte le forme sostenibili; che recuperano metodi tradizionali; che svolgono una importante funzione produttiva alimentando filiere di consumo e di alimentazione consapevole, che curano il territorio, che operano entro logiche di distretto, di cooperazione, di consorzi, che sono attori più o meno consapevoli di innovazione economica e sociale. Si, perché oggi innovare non vuol dire solo diventare più tecnologici, ma anche sviluppare pratiche significative di “retroinnovazione”, come vengono chiamate. Si pensi alle rotazioni, ai sovesci, all’integrazione allevamento-coltivazioni. Ciò non significa tornare all’agricoltura dei nonni, ma mettere insieme conoscenze moderne e funzioni antiche.