Allarme rientrato. Secondo i dati Istat più recenti non è vero che in Italia i dialetti siano in estinzione. Magari subiscono processi di italianizzazione, ma, a loro modo, perdurano – eccome – nella quotidianità delle famiglie e della vita sociale. E così vanno pure affrancandosi da quello status che li relegava a lingua ‘altra’ e di basso ceto. Poiché alternare dialetto a italiano è ormai un vezzo interclassista, ironico, cine-televisivo, persino scic; non di meno un esibito richiamo ad origini e affetti. Ecco, allora, il consolidarsi di una lingua italiana grosso modo ‘regionalizzata’, che di anno in anno, come testimoniano gli aggiornamenti dei dizionari, fornisce parole alla lingua ‘ufficiale’. Del resto – fanno notare gli studiosi – l’italiano altro non che un dialetto (il fiorentino) che si è potuto permettere di andare all’università grazie alle risorse del babbo (in tal caso i padri sono stati tre, e si chiamavano Dante, Petrarca, Boccaccio). In ragione di ciò, i toscani hanno potuto alimentare, nel tempo, una sorta di boria linguistica, ma non la gelosa ‘alterità’ racchiusa dentro un dialetto. Al punto da dover ripiegare – per guadagnarsi una lingua propria – in un vernacolo fatto di parole tronche, elisioni, insistiti pronomi, ghiotti bocconi di consonanti. Per cui, anche quando il popolo abbia inteso esprimersi con una ‘sua’ letteratura (stiamo parlando di poesia e canzone popolare) altro non ha potuto fare che ‘il verso’ a forme e linguaggi colti. Una contaminazione, però che ha visto anche l’inverso indirizzo, allorché alla cultura alta è piaciuto assai attingere ad espressioni e modi popolari. Basti pensare agli esuberi di lingua garfagnina nei Poemetti di Giovanni Pascoli o alla compiaciute raccolte di canti popolari toscani redatte da Niccolò Tommaseo, Giuseppe Tigri, Giovanni Giannini, che trascrivevano – magari con qualche abbellimento di troppo – quanto andavano ascoltando per bocca di popolo. A voler dimostrare come tra la gente tosca anche gli ignoranti non potessero essere ignoranti. Ma per tornare a considerazioni generali sulla letteratura dialettale, resta indiscutibile il fatto che poche grandi culture, al pari di quella italiana, hanno una lingua visceralmente legata ai dialetti. Tanto che risulta impossibile, in una storia della letteratura italiana, prescindere da autori quali Ruzante, Porta, Belli, Pascarella, Di Giacomo, Marin, Loi; i versi in friulano di Pasolini e quelli in trevigiano di Zanzotto. Fino alla lingua ‘inventata’ da Andrea Camilleri, frutto di una miscidazione, giocosa ma coltissima, tra italiano e siculo, che è, poi, il processo di contaminazione di cui parlavamo all’inizio e che caratterizza la sopravvivenza dei dialetti attraverso una glocalizzazione della lingua patria. Ecco, perché i dialetti, sono parte vitale della cultura letteraria italiana, inteso che – come scriveva Carlo Porta – le parole di una lingua sono “ hin ona tavolozza de color, / che ponn fà el quader brutt, e el ponn fà bell / segond la maestria del pittor”.