Firenze – Indossa il vestito buono, blu screziato di bianco. Lo tiene da parte per le occasioni importanti, in quelle case contadine dove l’armadio si può chiamare banco e il cassettone ancora canterale.
I capelli sono a posto: per la piega è andata dal parrucchiere. Meglio non potrebbe apparire. Anche la voce, all’inizio è sicura. “Quanti anni aveva…” inizia la domanda del magistrato. “Ventidue”. Nel frattempo, sono passati altri 62 anni. Non è difficile fare i conti sull’età della testimone.
“Mi può raccontare cosa successe il 29 settembre, partendo dalla mattina?”. Marco De Paolis, pubblico ministero della procura militare di La Spezia, è pacata. Non incalza. La testimone, però, sulla sedia di plastica del tribunale militare di La Spezia non è più tanto a suo agio: “Non so se gliela faccio” risponde. La memoria c’è, nonostante il tempo trascorso dal 1944. Come si fanno a dimenticare 770 morti in 7 giorni? La mattanza di Montesole-Marzabotto. I tedeschi arrivano, sterminano una comunità contadina in un centinaio di località dell’Appennino emiliano: entrano nelle case, trascinano su per le scale donne, vecchi, bambini riuniti in cantina a pregare. Li riuniscono in una stanza, buttano bombe a mano e chiudono le porte.
Il volto della testimone è inquadrato nel docufilm “Lo stato d’eccezione”, girato da Germano Maccioni una ventina di anni fa a La Spezia durante uno dei grandi processi agli autori degli eccidi compiuti da SS e fascisti sulla popolazione civile. E’ una delle tre pellicole che chiude la mostra “Nonostante il lungo tempo trascorso” sulle stragi nazi-fasciste nella guerra di liberazione (1943-1945) che la Regione Toscana ospita per la seconda volta a Firenze, a palazzo Guadagni Strozzi Sacrati (piazza Duomo 10) fino a maggio.
“Storia-giustizia-memoria” recita il sottotitolo di questa mostra curata da Marco De Paolis che oggi è procuratore generale della Corte d’Appello della procura militare, a Roma. E che, colmati i ritardi della giustizia del dopo-guerra, si impegna su due fronti: garantire la tutela dei diritti delle vittime e costruire una cultura di dialogo, di pacificazione. Perché non ci siano altre Marzabotto, altre Sant’Anna di Stazzema, con i suoi 560 morti, altri eccidi – per restare in Toscana – di Farneta (Lucca), San Terenzo Monti (Fivizzano), Vinca – il massacro accompagnato dal suono di un organetto – Civitella (in provincia di Arezzo), padule di Fucecchio, Palazzaccio (nel Senese), eccetera, eccetera.
Si tratta di una mostra che gira dal 2021 e che sembra diventare ogni giorno più attuale: per le guerre che non accennano a terminare, le democrazie che si sgretolano insieme ai diritti umani, i negazionismi che avanzano. I dati dei conflitti odierni e delle vittime nel mondo richiamano quelli “poco noti” – per usare un’espressione di De Paolis – delle stragi nazi-fasciste: oltre 24mila vittime civili, quasi 7000 solo nel centro Italia (la maggior parte in Toscana), 695 fascicoli giudiziari occultati negli anni Sessanta nel cosiddetto “armadio della vergogna”, con un’archiviazione provvisoria dei procedimenti giudiziari.
Motivazione dell’archiviazione provvisoria introdotta proprio con la frase: “Nonostante il lungo tempo trascorso” che dà il titolo a questa mostra definita da De Paolis un “museo itinerante” per la ricchezza di contenuti. Un percorso (a ostacoli emotivi) nel nostro passato. Così vivido nelle mani dell’ex bambino diventato vecchio, aggrappato a un fazzoletto bianco durante la testimonianza in tribunale sui morti di Montuose. E quell’altro. Anche lui oggi un vecchio bellissimo: durante la testimonianza, a La Spezia, si copre il volto con la mano nel tentativo di nascondere i ricordi, di scacciare il dolore. Ma come si fa? “Quel giorno ho visto solo morti”. E i morti non sono numeri.
Procuratore de Paolis, perché ancora ha senso allestire una mostra come questa?
“Perché riesce a dare forma a una pagina della nostra storia contemporanea drammatica, dolorosa e che purtroppo è poco conosciuta o, talvolta, non conosciuta affatto. Quando si vedono le cifre – esposte in molti pannelli – non mancherà qualche moto di meraviglia. La mostra (che ha l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica) nasce nel 2021 da un’idea dell’allora capo dello di Stato maggiore della Difesa, il generale Enzo Vecciarelli, che ebbe intuizione molto felice. Riflette l’esigenza di far conoscere agli italiani e soprattutto ai giovani, ai ragazzi che domani saranno i nostri dirigenti, una pagina fondamentale della nostra storia contemporanea”.
Le procure militari e i tribunali militari di La Spezia, Verona, Roma, hanno celebrato processi per stragi civili che sembravano destinate a restare senza colpevoli fino a una trentina di anni fa. Ci sono ancora condizioni, termini per celebrare processi analoghi?
“Dal punto di vista giudiziario ritengo che ormai siamo fuori tempo massimo: credo che non ci sia più nessuno dei responsabili da cercare. Non penso che ci sia più nessuno dei potenziali responsabili in vita. Resta, comunque, il grande valore delle attività giudiziarie che i tribunali militari italiani hanno svolto, soprattutto negli ultimi venti anni, e siamo pronti, come magistratura militare, come giustizia militare, ad applicare le stesse regole, gli stessi principi, le stesse norme di diritto per i crimini di guerra per l’attualità di oggi”.
Anche oggi?
“Possiamo dire che i principi di diritto sui quali si fonda il nostro Stato sono quelli che abbiamo applicato in passato per questi crimini della Seconda guerra mondiale e che oggi dobbiamo difendere e applicare nell’attualità. Ogni occasione di memoria, di studio di quello che è stato, ci può essere utile perché fa riflettere oggi gli operatori del diritto, coloro che hanno la guida delle nazioni e i giovani che si devono formare e devono essere domani i dirigenti dei nostri Paesi a fondare ogni azione sui principi di umanità e solidarietà. Questo è il fondamento del nostro Stato, questo è lo spirito con cui questa mostra ha preso le mosse, non a caso una mostra prodotta dallo Stato maggiore della Difesa, quindi da un’istituzione importante del nostro Stato che ha il compito proprio di assicurare la difesa. Ecco, questo, direi che è significativo”.
Quanto il concetto di perdono quanto può pesare rispetto alla creazione di una cultura di pace più solida?
“Sul profilo del perdono abbiamo visto, soprattutto negli anni passati, soprattutto per quello che ha riguardato gli eccidi in Rwanda, che il sistema di giustizia riparativa ha funzionato. Io credo molto nella giustizia riparativa, credo che dovremmo fare tutti una riflessione culturale e normativa su questi tempi e spero che si possa proseguire per questa strada (che prevede un confronto fra chi ha commesso i crimini e le vittime, con il consenso delle vittime, ndr)”.
La giustizia riparativa prevede anche che chi ha subito un danno, una perdita accetti il confronto con il criminale, la riparazione. Che sia disposto a dialogare con chi ha causato il dolore, il lutto. Ritiene che la nostra società sia pronta da un punto di vista politico, culturale per andare in questa direzione?
“A questa domanda non so rispondere. Credo che iniziative culturali come questa mostra possano contribuire a creare un terreno sul quale potrà germogliare, speriamo non troppo in là, la pianta della giustizia riparativa”.
Già non è facile risolvere la questione del risarcimento alle vittime o ai familiari delle vittime delle stragi nazi-fasciste. L’opposizione dell’Avvocatura di Stato rende il problema di difficile soluzione.
“Il discorso è molto complesso e delicato, difficile da sviscerare in poche parole. Da un lato c’è il sacrosanto diritto della vittima (o dei suoi familiari) ad avere una giusta riparazione e questo è fuori discussione. Poi, naturalmente, bisogna anche essere concreti e capire che quando il diritto sacrosanto della persona offesa, della vittima si inserisce in un contesto straordinario come quello di una guerra mondiale, nel quale ci sono milioni di vittime, ci sono distruzioni, devastazioni di continenti (come la nostra Europa) è chiaro che il ricorso allo strumento giuridico interno di un Paese (il Codice civile nel caso italiano) forse non è quello migliore per dirimere una questione così delicata. E sovranazionale. Attenzione, questo non vuol dire non riconoscere i diritti delle vittime: significa cercare di tutelare i diritti delle vittime in una forma giusta, adeguata allo scopo”.
Quale potrebbe essere lo strumento adatto allo scopo?
“Di solito quando le guerre cessano gli Stati trovano accordi che vengono fissati con trattati internazionali, proprio perché è impossibile affrontare questioni come i risarcimenti alle vittime o per i danni subiti con il diritto interno, applicato alle singole situazioni. Ci vuole, quindi, un concorso degli Stati, ma un concorso non ipocrita, perché la persona offesa è vittima anche della guerra giusta. Quindi noi dobbiamo farci carico di tutte le vittime. Sono arrivato a questa conclusione dopo 16 anni di attività giudiziaria (nei processi per le stragi nazi-fasciste) e ho conosciuto centinaia e centinaia e centinaia di vittime e di familiari. In tutto questo periodo ho potuto constatare che chi ha avuto la propria vita distrutta da una strage, non è interessato tanto a sapere chi ha ucciso il proprio familiare durante la guerra: piuttosto è interessato al fatto che la sua vita è stata distrutta e che ci vorrebbe qualche cosa per farla tornare a essere normale, o ad avvicinarsi a essere normale”.
Obiettivo non facile.
“Mi ricordo che in un convegno, a Palazzo Madama, anni fa, la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz, riferendosi a Priebke, disse che, tutto sommato, non aveva un grande interesse a conoscere quale sarebbe stata la sorte giudiziaria di questo noto nazista, perché il male che era stato incarnato da Priebke e dagli altri nazisti era talmente grande, talmente devastante che le singole persone svanivano rispetto a questa grandiosità del male. Ecco perché credo che questo tema debba essere affrontato in un terreno molto più ampio, ma non con questo strumento, quello del diritto interno, quantificare in 30-40mila euro, o anche 50mila euro come a un nipote di una vittima, non credo che soddisfi quel desiderio di giustizia che dovremmo manifestare in un’altra maniera”.
Uno degli scopi e anche degli effetti positivi della mostra è di far conoscere. Conoscere cosa significa?
“Sicuramente conoscere è uno dei migliori antidoti al negazionismo. In questa mostra in corso a Firenze, le vicende vengono spiegate nella loro realtà. Lo scopo di questa mostra è la ricostruzione della verità, di quello che è accaduto: possiamo affermare che questa mostra è lo scudo al negazionismo”.
Ritiene il negazionismo una delle emergenze culturali, politiche attuali?
“Quando alcuni anni fa ho visitato il museo del Genocidio in Armenia, nell’ultima sala è riprodotta una frase pronunciata da Hitler nel 1939, quando pianificava la “Soluzione finale” (lo sterminio degli Ebrei). Quando alcuni collaboratori gli chiesero: “Führer, non sarà troppo quello che ti accingi a fare? Se ne accorgeranno gli altri Paesi”, Hitler rispose: “Qualcuno di voi ricorda l’olocausto degli Armeni?”. (avvenuto solo 17 anni prima). In realtà non lo ricordiamo neppure oggi. Allora questa mostra è un’operazione soprattutto etica, è uno strumento per difenderci dal negazionismo e dai negazionismi che ci circondano. Le immagini, i dati, i documenti sono lì a dimostrarlo, a ricordarlo. Ma questa mostra è anche un doveroso atto di responsabilità verso le nuove generazioni, compresi i giovani in uniforme, visto che noi abbiamo tante scuole, tante accademie militari dove si formano i nostri comandanti, le persone che oggi e domani dovranno decidere come comportarsi in queste circostanze e i giovani civili che, a loro volta, dovranno da cittadini, prendere scelte politiche più importanti per il bene comune”.