«Let me be clear: Mr. Sterling’s views have no place in Nba». Con queste parole, dure e severe, il commissioner Nba Adam Silver ha stigmatizzato la bufera che si è abbattuta sulla sua Lega in seguito alle dichiarazioni del proprietario dei Los Angeles Clippers, Donald Sterling.
Nba e razzismo L’Nba, assieme agli Stati Uniti, ha impiegato molti anni per superare il mito della superiorità della razza bianca. Sono serviti veri e propri sommovimenti sociali, uniti a storie come quella dei Miners della Texas Western (squadra composta da sette giocatori afroamericani capace di vincere il torneo Ncaa nel 1966 contro ogni pregiudizio) per ribaltare lo status quo. Nonostante ciò il razzismo resta una ferita aperta e profonda. Per questo motivo quando sono state pubblicate le registrazioni della conversazione tra Sterling e la fidanzata, in cui il miliardario le imponeva di non farsi più vedere al fianco di afroamericani menzionando la foto che si era fatta assieme a Magic Johnson, il vespaio che si è sollevato ha raggiunto velocemente proporzioni immani. Non essendo più il 1966 l’Nba adesso è una Lega che si poggia su atleti di colore, la stessa squadra di Sterling non fa eccezione. Già la sua squadra. Una delle reazioni più simboliche al ‘caso Sterling’ è venuta proprio dai Clippers, quando prima della partita hanno deciso di cantare l’inno americano con le soprammaglie rovesciate, in segno di protesta. Tutto il mondo si aspettava una dura presa di posizione da parte di Silver, che non ha tardato ad arrivare: in una conferenza stampa, in cui per la prima volta era veramente sul banco di prova dopo il pensionamento del suo leggendario predecessore David Stern, il commissioner ha fatto capire che non verrà ammesso niente del genere in Nba. Sterling è stato bandito a vita dall’Nba, multato di due milioni e mezzo, inoltre quasi sicuramente sarà costretto a vendere la squadra (probabilmente proprio a Magic Johnson). Dire pugno di ferro è un eufemismo.
Il calcio e il razzismo In Europa casi simili ne abbiamo visti a migliaia, magari non così eclatanti, ma comunque di quelli che lasciano il segno. Basta pensare a Boateng che abbandona il campo durante l’amichevole estiva contro il Pro Patria, ma ultimamente abbiamo vissuto un caso ancora più clamoroso. E’ quello che è successo durante Villareal-Barcellona, quando vedendosi tirare una banana nella sua direzione Dani Alves l’ha raccolta e mangiata prima di tirare un calcio d’angolo. Un gesto che ha fatto rapidamente il giro del mondo nella sua semplicità e allo stesso tempo con il suo tremendo impatto emotivo. Un gesto che ha anche scatenato una corsa sui social a chi pubblicava la foto più interessante con una banana in mano, nel tentativo di dimostrare il proprio supporto alla campagna antirazzista. Anche in questo caso il responsabile è stato bandito a vita dal Madrigal ed è stato anche arrestato, visto che il codice penale spagnolo condanna la discriminazione razziale. Inutile pensare però che basti un bel gesto o una campagna virale per debellare un fenomeno che è ancora un cancro ben radicato in grado di trovare spesso nelle curve le proprie metastasi. Sono notizie settimanali infatti quelle di cori razzisti provenienti ogni volta da qualche gruppo ultras diverso; c’è da chiedersi quindi quando finalmente anche il calcio avrà il coraggio di intraprendere una linea veramente dura come quella che in questi giorni sta portando avanti l’Nba. Anche perché le foto con le banane possono fare simpatia, ma non cambiano la mentalità di certa gente.