All’indomani del ballottaggio (leggi) per le primarie del centrosinistra agenziaimpress.it pubblica il commento di opinionisti e politici per un’analisi del voto, adesso che il popolo del centrosinistra ha scelto il suo candidato premier. Tito Barbini ha alle spalle oltre 35 anni di impegno nella politica e nelle istituzioni toscane. A soli 25 anni venne eletto sindaco di Cortona, in seguito è stato presidente della Provincia di Arezzo e assessore alla sicurezza sociale, all’urbanistica e all’agricoltura della Regione Toscana. Ha da tempo abbandonato la politca attiva, è un apprezzato scrittore di libri di viaggio, ma il suo punto di vista è senz'altro interessante per aiutarci a capire bene il mondo della sinistra che si è messa in moto con queste primarie.

«Ho votato, convintamente, Bersani e credo che, alle condizioni date, sarà un buon Presidente del Consiglio. Magari senza (ancora) la statura internazionale di Prodi e con qualche competenza in meno, ma certamente con maggiore senso politico: l’esperienza per evitare trappole e una sufficiente flessibilità per trovare i necessari compromessi ed equilibri per affrontare le complesse situazioni che – tanto sul fronte interno quanto su quello estero – toccheranno al nostro Paese.
 
Il cambiamento dall’interno Ma qui, in queste Primarie, è accaduto qualcosa che non può (o non dovrebbe) essere archiviato come una pratica evasa e un rischio evitato. E’ successo che una notevole massa di persone, che altrimenti non avrebbe (più? mai?) preso in considerazione l’idea di partecipare attivamente ad un momento della vita interna del centrosinistra, ha pensato che queste primarie fossero una faccenda che li riguardava e per cui valesse la pena uscire dal proprio privato e prendere parola. Matteo Renzi ha portato a votare la maggior parte di queste persone che hanno riconosciuto in lui – che sia vero o no – un reale innovatore, del tipo che soddisfaceva le proprie esigenze del momento: uno, cioè, che non proponeva un cambiamento dall’interno, attraverso la pazienza del confronto interno al centrosinistra, bensì come uno che dall’esterno mettesse a soqquadro quella casa tanto ordinata da essere avvertita come immobile, vecchia, sclerotizzata e asfissiante. Io non penso affatto che queste persone siano affiliate o culturalmente di centrodestra (se non in minima parte); ritengo invece che si tratti di persone con sentimenti affini a quelli che il centrosinistra, almeno teoricamente, propugna e che si sono sentite tradite dai dirigenti di quel campo, oppure respinte da quella casa o che l’hanno avvertita come straniera e vi si sono allontanati o non hanno considerato finora di entrarvi. Che sul piano numerico le cose siano andate più o meno così ce lo dicono tanti analisti (v. D’Alimonte sul “Sole 24 Ore” del 26 novembre): Bersani ha ripreso al primo turno tutti i suoi voti del Congresso del 2009 e al secondo ha calamitato, direi logicamente, tutti i voti di opinione di Vendola (esclusi, forse, quelli di chi ha in odio i dirigenti del Pd per motivi pregressi), quelli della Puppato (che avevano cercato il cambiamento dentro il Pd senza avere l’incoscienza di optare per la carica destabilizzante di Renzi), quei pochi ma consustanziali di Tabacci e del PSI. La differenza l’hanno fatto i nuovi, o gli imprevisti e imprevedibili apporti.
 
Renzi e il successo in Toscana Personalmente ritengo che vi sia uno iato enorme fra quello che Matteo Renzi è veramente (per ciò che concerne cultura politica, modalità di governo e legami sociali) e ciò che in lui hanno visto o creduto di vedere questi suoi sostenitori, ma ciò va ascritto alle grandi capacità (qualcuno dirà illusionistiche, ma io non sono d’accordo) di Renzi che ha saputo, consapevolmente e scientemente, presentarsi così: l’unico che avrebbe potuto rovesciare un assetto di poteri, percepito come vecchio e consunto, nel centrosinistra e nella società italiana, senza avere l’onere in questa fase di dimostrare chiaramente quale assetto nuovo sarebbe subentrato al vecchio. Per questo, anche, il suo messaggio ha avuto maggior successo in Toscana e in altre regioni dove il centrosinistra è solidamente al potere da decenni ed esprime tanta parte della governance della società.
 
L’erosione di credibilità del gruppo dirigente Qui si è erosa, progressivamente ma inesorabilmente, la credibilità del gruppo dirigente, sotto i colpi non di una questione morale (che, invece, ha colpito in altre aree del paese, interessando talvolta anche il Pd), bensì di quelli della crisi di fronte alla quale gli strumenti e le strutture tradizionali del sistema produttivo e di protezione sociale, che hanno creato coesione sociale e sviluppo di qualità in grado di affrontare altre fasi difficili della storia italiana, oggi iniziano a incrinarsi seriamente. Questo messaggio renziano fa breccia anche e soprattutto nell’elettorato d’opinione di centrosinistra (tanto che Renzi può ben vantare di andare meglio nelle “regioni rosse”); persone che sbaglieremmo a collocare sull’asse destra-sinistra e magari mettendole al centro, usando uno schema mutuato, appunto, da un tempo e da un assetto sociale che essi non riconoscono più e che forse, in quella forma, ha davvero poco senso. Se il gruppo dirigente del Pd e del centrosinistra sottovalutasse questo segnale e non ne capisse la profondità – magari pensando di risolvere il problema immettendo nel sistema una serie di dirigenti anagraficamente nuovi ma culturalmente legati da un filo d’acciaio di continuità con lo status quo – compirebbe un tragico errore. Ciò non significa accogliere acriticamente tutte le istanze che Matteo Renzi ha portato con sé in queste primarie (alcune delle quali veramente vecchie e fallimentari, come una idea della riorganizzazione del mercato del lavoro secondo schemi liberisti o l’evocazione di una finanza globale che comunque potrà assicurare sviluppo e benessere); significa però andare a cercare (e non sarà affatto dialettica necessariamente polarizzante delle primarie e senza farlo per l’interposta persona di un capobastone che Renzi stesso dice di non voler essere. Ci vorrà più coraggio e più forza di quella che Renzi ha rivendicato per sé, se stiamo alle dichiarazioni certamente non incoraggianti di Rosy Bindi («la deroga come regola») e di Massimo D’Alema («Renzi un complotto dei media»), ma non mi pare ci siano alternative».