Filosovietici, delusi o infiammati, scettici, astorici, antichi militanti, simpatizzanti, curiosi, malcapitati, agnostici. Per voi e per tutti gli altri domenica 12 novembre al Teatro Verdi di Firenze (ore 21) va in scena  “I Soviet + L’elettricità”, spettacolo ideato e diretto da Massimo Zamboni dedicato al centenario della rivoluzione bolscevica del novembre 1917. Un comizio musicale che attingendo al linguaggio, alle parole d’ordine e ai simboli del socialismo reale, evoca il mito infranto della rivoluzione: della rivolta degli oppressi, del potere agli operai e ai contadini, della società senza classi e senza sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Con Zamboni (voce, chitarra), salgono sul palco Angela Baraldi e Max Collini (voci), Danilo Fatur (performance), Simone Filippi (ritmiche), Simone Beneventi (timpani, vibrafono, ritmiche), Cristiano Roversi (tastiera, basso, programmazioni) ed Erik Montanari (chitarra).

Lo spettacolo In scena dominano gli elementi classici dell’iconografia sovietica: il podio e le tribune d’onore. Strutture per cerimonie politiche, solenni e oppressive allo stesso tempo, dove i cantanti diventano oratori, i musicisti membri di un Partito, il gruppo musicale Apparato. Alle proiezioni filmate il compito di segnalare il momento storico e le sue possibili interpretazioni, al performer il ruolo di assumere i contrasti su di sé, lasciandoli esplodere.  La struttura musicale, tratta in massima parte dal repertorio di CCCP-Fedeli alla Linea, cavalca la linea larghissima che congiunge la celebrazione allo sgomento, la scenografia ufficiale alla fragilità del singolo. Canzoni che scivolano le une nelle altre mescolandosi alla parola recitata, agli slogan, alle sonorizzazioni, alle performance, alle proiezioni. Nessun concerto rock ma una azione teatrale-musicale per una drammaturgia complessa e articolata, costituita in pieni e vuoti. Sarà tutto il ‘900 a trascorrere sul palco, attraverso la rievocazione, l’alternanza dei momenti più dolorosi (lo stalinismo, le dittature, la guerra in Afghanistan, nei Balcani) e più alti e solenni, a costituire una celebrazione dedicata all’ambizione che anima le vite degli uomini: quella di sentirsi uguali e padroni del proprio destino.
Pankow Leningrad Togliattigrad, la Cortina di Ferro, il Muro, e poi ancora la Jugoslavia, la Cecoslovacchia. Nomi astratti, remoti come ricordi di scuola, come le estinte Cartagine o Babilonia. Il Patto di Varsavia, la DDR, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, interi continenti inabissati nella voragine, come Atlantide. Cosa è rimasto nell’immaginario collettivo di quei mondi? Di quell’idea che ha fatto della liberazione dell’uomo dall’uomo uno dei suoi credo fondanti? Nel secolo odierno quelle passioni accese dalla rivoluzione d’ottobre sono incagliate nei libri di storia, e forse l’unico modo sensato di riparlare oggi di CCCP, di ricordare la presa del Palazzo d’Inverno, è tornare a dar vita alle parole di allora, scontrandole con quelle dell’oggi, elaborandole in un testo drammaturgico moderno che non teme l’enfasi, l’utopia, ma nemmeno la disperazione.Franata la velleità socialista che la rivoluzione potesse essere una locomotiva proiettata a folle velocità nel binario del progresso, l’uomo si è riscoperto come creatura complessa, fatta di spirito, bisogni, natura, modellato da secoli di storia e da retaggi millenari.