Percorrere via di San Pietro, via di Città, piazza Indipendenza – e la stessa cosa potrebbe dirsi di molte altre zone di Siena – comporta che si compia un viaggio a ritroso nel tempo. Il selciato, le abitazioni private, i palazzi pubblici, gli edifici religiosi, gli archi a sesto acuto, gli archi a tutto sesto, i vicoli laterali, le finestre, i portoni, gli anelli a muro forgiati a mano, tutto induce ad abbandonare l’epoca presente per immergersi in epoche precedenti. E in chi, come me, è insegnante, la percezione del trascorrere del tempo pare accentuarsi ogni volta che attraverso questo spazio urbano in compagnia degli alunni, come in questa limpida mattina di febbraio in cui mi dirigo con le mie due classi quinte ad assistere allo spettacolo “Socrate il sopravvissuto”, messo in scena al Teatro dei Rozzi dalla compagnia Anagor. Mi viene naturale, infatti, ritornare con la mente a quando camminavo lungo queste stesse strade insieme ad altri studenti, oramai cresciuti, oramai divenuti uomini e donne.
Al centro di questo lavoro teatrale, che prende spunto dal romanzo “Il sopravvissuto” di Antonio Scurati e la cui regia è affidata a Simone Derai, c’è la questione educativa. E chi meglio di Socrate è stato in grado di incarnare la figura del maestro? Chi, infatti, è riuscito a muovere nei più giovani il desiderio di sapere con maggiore efficacia del filosofo ateniese? Chi ha dimostrato con pari forza che far apprendere non significa mai riempire dei vasi o dei recipienti vuoti, bensì comporta che si aprano mondi e si favorisca l’individuazione di sentieri, che poi spetta all’allievo percorrere in completa autonomia? Insomma, a tal punto Socrate col suo magistero ha portato alla luce l’intimo legame che unisce l’educare e il sedurre – evidente a livello fonetico ed etimologico già nel latino educere e seducere – che agli occhi di molti egli costituisce non già un maestro, ma il Maestro.
Non è perciò un caso se già a partire dal titolo la sua figura si impone all’attenzione dello spettatore, non è perciò un caso se non poche scene rimandano al “Fedone” e all’”Alcibiade maggiore” di Platone. Tuttavia, come Socrate e il metodo socratico non esauriscono la fenomenologia della formazione (nel significato racchiuso nella parola tedesca Bildung), così neppure danno conto della complessità degli spunti, concernenti il processo educativo, presenti in “Socrate il sopravvissuto”. Largo spazio, infatti, è accordato anche alla scuola italiana del terzo millennio e, attraverso una serie di flashback, a certi momenti della Storia del Novecento, nei quali a trovarsi in pericolo (perfino a venire messa in discussione) è stata l’esistenza stessa dei libri. Penso, ad esempio, alla scena che vede un giovane strizzare con una pressa improvvisata dei libri intrisi d’acqua, dove il riferimento è, in primo luogo, all’alluvione di Firenze del novembre del 1966 e allo sforzo profuso con generosità da uomini e donne di ogni età e provenienza per mettere in salvo i testi conservati presso la Biblioteca Nazionale e in altre biblioteche cittadine. Oppure, nella stessa scena, qualche metro più in là, al corpo di una giovane, che viene un po’ alla volta ricoperta con libri vecchi, libri antichi, fino a formare un cumulo che, in maniera sinistra, somiglia a una pira, una delle tante pire che hanno visto ardere, nel corso dei secoli, l’opera di chi è stato reputato sgradito (pericoloso) allo Stato o alla Chiesa.
Vero è che, nella sua costitutiva polisemia, il teatro consente anche una lettura diversa – e complementare – di suddette scene. L’acqua che viene “spremuta” dai libri, ad esempio, può alludere anche alla capacità, che questi possiedono, di dissetare la sete di apprendere, che è innata nell’uomo e che lo innalza al di sopra dei semplici bisogni primari; analogamente, la catasta di volumi sotto i quali si viene a trovare l’attrice evoca e comunica l’idea che di troppa cultura si può anche morire, si può anche soffocare, specie se questa si riduce a vuota erudizione, nozionismo, conoscenza slegata da ogni risonanza emotiva e che non concepisce l’apprendimento come una riflessione suscitata da certi incontri che si verificano nell’aula scolastica – coi libri, coi compagni, con gli insegnanti – bensì come un accumulo di pagine lette, immagazzinate e successivamente dimenticate per fare posto alla porzione successiva del programma ministeriale.
Tradire il magistero di Socrate è, per me, arrendersi a un’idea di sapere che ha smarrito il nesso “educazione-seduzione” (educere-seducere) e ha relegato, o certa di relegare, ai margini del processo formativo la figura del docente, la cui voce, la cui gestualità, la cui improvvisazione e originalità faticano a trovare spazio in un ambiente, la scuola, che assomiglia sempre di più a un gigantesco schermo di tablet, smartphone, computer, dove tutto è programmato, stabilito, previsto. A quel punto, non solo è impossibile per “l’educazione” (educere), alla lettera “trascinare”, “sospingere”, farsi anche “seduzione” (seducere), alla lettera “condurre via”, “condurre in disparte”; ma essa è destinata a restare irrimediabilmente lontana anche da ogni pensiero di “sedizione”, cioè di sovvertimento dell’ordine. Eppure, l’importanza dell’insegnamento – la sua più intima natura, e Socrate ce lo ricorda, e i grandi maestri ce lo ricordano – risiede proprio qui, vale a dire nel trascinare il giovane lontano dal noto e dal consueto e, al contempo, nel renderlo critico nei confronti di ciò che viene accolto, per tornaconto, pigrizia, stanchezza, come vero e irrinunciabile e che, in realtà, appare perfettamente organico alla società dei consumi e ai suoi falsi miti, che celebrano come sommi beni il successo, l’efficienza, il denaro.