Nell’affresco del Buongoverno, utilizzato da molti (troppi) a sproposito, non come un monito, ma come un’investitura che sembra fatta apposta per celebrare, giustificare ed esaltare il proprio operato, Ambrogio Lorenzetti rappresenta la Concordia come una schiera di cittadini che guardano tutti dalla stessa parte, tenendo una corda in mano. Il Lorenzetti, con un errore etimologico non si sa se consapevole e piegato alle proprie esigenze comunicative e artistiche, oppure inconsapevole, declina il termine “concordia” come “tenere tutti in mano la stessa corda”, che di fatto li lega al Governo della città, cioè al potere.
Vai a spiegare che il significato di “concordia” significa “avere tutti lo stesso cuore”, lo stesso obiettivo, la stessa intenzione: il bene della Città, appunto, verso il quale, metaforicamente, tendono gli sguardi di tutti. Questo non vuol dire certo che bisogna avere tutti le stesse idee, come invece l’uso moderno del termine in italiano suggerisce.
Il dibattito c’è stato più o meno finché è durato il sistema del pentapartito, che aveva sì la pecca delle spartizioni, ma non quella, avvenuta dalla seconda metà degli anni Novanta, dell’asso pigliatutto.
Finora il tanto autodecantato Buongoverno dei DS, PD, ulivi vari – si perde il conto delle sigle, ma sono quelli che governano da settanta anni (settanta anni!) la città, ha dato per scontato che il consenso, quello da premiare, quello gradito al manovratore, significasse far reggere a ognuno un pezzetto di canape. La tendenza ha avuto una forte accelerazione dopo il crollo dei partiti tradizionali. Il popolo poteva democraticamente guardare – e, meno democraticamente, ammirare senza condizioni – la magnificenza dell’apparato, del partito, della macchina da guerra. Se poi non guardava niente e si faceva i fatti propri, tanto meglio.
I risultati sono quelli lucidamente e chiaramente espressi da Daniele Magrini (Leggi). In questa operazione di ricerca del consenso e del gruppo dirigente di appoggio, a tutti i livelli, vorrei aggiungere anche una pressoché totale mancanza di meritocrazia. In una qualsiasi scelta per ricoprire incarichi in posti chiave più o meno importanti la tessera faceva di gran lunga la differenza. L’appartenenza faceva, metaforicamente, punteggio. L’obbedienza cadaverica e la fedeltà, il sapersi barcamenare hanno consentito a persone di dubbia competenza e scarni curricola di soddisfare le proprie ambizioni di stipendi sicuri, gestione di poteri piccoli o grandi, visibilità. Alcuni hanno ottenuto docenze, altri presidenze, altri ancora licenze.
Questo sistema ha fatto sì che si instaurasse un sistema di potere fatto di delicati equilibri, dove se togli un mattone rischia di venire giù tutto l’edificio. Ciò potrebbe spiegare perché – ancora oggi – alcuni palesi incompetenti, inadeguati o nullafacenti non vengono rimossi dall’incarico, nonostante la sbandierata discontinuità. Perché chi ha provocato voragini di “rosso” non viene invitato caldamente a svolgere il sano esercizio delle dimissioni.
I personaggi scomodi sono stati nella migliore delle ipotesi emarginati, in altre severamente puniti e “mandati al confino” o inseriti in liste di proscrizione. Ricordiamo il periodo delle liste massoniche – precedute da una campagna denigratoria e strumentale contro la Massoneria – che contenevano avversari interni ed esterni al partito, oltre a massoni veri, massoni defunti e massoni in sonno, cioè inattivi. Molti dissidenti sono stati, personalmente e professionalmente, “marchiati a fuoco”. E la lettera, manco a dirlo, era più scarlatta di quella del romanzo di Hawthorne.
Con questo, anche con questo bisogna fare i conti, prima di dare credito a chi – magari vittima dei propri stessi metodi – si ripropone in veste salvifica e virginale, oppure con chi non si rassegna ad aver dovuto passare il testimone, aspetta che passi la nottata e intanto lavora come un fiume carsico, con l’illusione di essere la Diana e non l’acqua che ha contribuito a rovinare ponti e Monti.
Sotto gli stemmi, i loghi e i motti che si sono susseguiti in questi decenni c’è un mondo al tempo stesso variegato e monolitico, con una matrice politica pressoché identica e comunque accomunata dalla volontà di gestire il potere. Una matrice che non ama sentirsi dire che ha la piena e da oltre venti anni unica responsabilità politica dei disastri di Siena e che oggi ha quella di una ricostruzione inadeguata, carente di idee e di progetti che uniscano la concretezza alla lungimiranza.
Il potere che, mentre ostentava l’indifferenza della sfinge faceva fuori i personaggi sgraditi che manifestavano dissenso, era anche lo stesso Moloch che fingeva di tollerare i dissidenti più deboli o meno pericolosi in nome della democrazia, lasciandoli parlare senza mostrarsi scalfito. In pratica, c’è stata una lunga stagione nella quale chi era di idee diverse o avverse o veniva allontanato, o veniva screditato o veniva fagocitato come elemento funzionale al sistema.
Dopo che il meccanismo è impazzito e il sistema è imploso, dalle macerie si alza il fumo di una rinnovata libertà di parola, che qualcuno si è preso senza chiedere il permesso, aprendo blog o scrivendo e dicendo parole scomode. Il potere, più instabile e perso dietro alla ricerca di equilibri interni, ha meno forza e meno tempo da dedicare al silenziamento dei dissidenti.
Le argomentazioni sono deboli: la nostra Siena è bella, è vero, ma questo non è merito di chi l’ha governata negli scorsi decenni: anzi, diciamo che Siena è bella nonostante chi l’ha governata ultimamente, perché le grandi opere, le manifestazioni di grandezza vera e la floridezza delle istituzioni sono finite, più o meno, negli anni Ottanta.
E oggi, spesso, i senesi mostrano la propria parte peggiore: la piccineria, l’arroganza, il rancore, un pessimismo cosmico irritante perché inutile e autolesionista, un brontolio senza costrutto e senza reazione. A Firenze si parlerebbe di gufi, a Siena il potere deve pensare che è meglio non urtare suscettibilità contradaiole. Il continuo rimuginio, il disfattismo, il sarcasmo e la critica fine a se stessa sono tanto dannosi per la città quanto l’acquiescenza placida, talvolta frutto della stupidità, talaltra del timore o dell’interesse.
La faccia lucida della medaglia del potere è smart, appariscente e “riveditoia”. Esalta gli alcuni innegabili meriti che ha e talvolta si prende disinvoltamente quelli che non ha. È positiva alla Jovanotti, ma sostanzialmente superficiale. Accanto a iniziative lodevolissime, ma di piccolo cabotaggio, mancano progetti seri, articolati e davvero in grado di cambiare la città.
A volte si ha la sensazione di assistere a un bluff; di intravedere sulle cose una patina d’oro che al primo graffio rivela la propria vera natura di metallo fasullo e di scarso valore. La città viene rivestita di vestiti pretenziosi e talvolta un po’ pacchiani, con una qualità che sa di made in China.
Sotto, la biancheria intima lascia molto a desiderare. E Dio solo sa quanto Siena abbia bisogno di mutande (anche nel senso pieno di mutazioni, cambiamenti) e persone nuove e pulite.