Poiché quest’anno dobbiamo parlare di Unità d’Italia, c’è fra tutti un bel concorso a ritrovare le parole che meglio possano evocarla. Le parole, appunto, che “hanno fatto l’Italia” o che, tantomeno, ne abbiano suggerito l’aspirazione. A tale sillabario, come abbiamo avuto modo di scrivere in diverse riprese, dette un deciso contributo la letteratura ottocentesca, e l’onda emotiva di certe pagine giunse a lambire pure i primi decenni del Novecento. Anni e libri da tempo consegnati alla polvere che giusto i soffi del centocinquantesimo hanno rivivificato, così che un nugolo di parole ha preso a disperdersi nel nostro oggi dove è tornata a sventolare “la santa vittrice bandiera” manzoniana, o con Foscolo siamo andati “memorando la libertà e la gloria degli avi”, quegli stessi avi di cui Leopardi vedeva “i simulacri e l’erme torri… ma non la gloria”.
Sprezzanti dell’anacronismo e amanti delle belle lettere, ci è piaciuto innescare il gioco delle citazioni. Però – sarà bene dirlo – le parole che da un certo punto in poi hanno fatto l’Italia sono state ben altre. Provate ad esempio a immaginare quali emozioni avrà smosso il 7 gennaio 1897 il verbo del Carducci che in occasione del centenario della bandiera tricolore rimbombò nell’atrio del Municipio di Reggio Emilia: “L’Italia è risorta nel mondo per sé e per il mondo…”. Chissà che brividi suscitarono gli stentorei accenti del poeta, ma indubbiamente impari a quelli che sarebbero stati provocati l’11 luglio 1982 da un grido che percorse le strade deserte di tutta Italia: “Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo”. Il vate di turno era Nando Martellini e le sue parole contribuirono, eccome, a fare l’Italia. A sdoganare persino lo sbandieramento del Tricolore, fino a quel momento appannaggio (ed a panneggio) di una parte politica che praticava brutte nostalgie. Dobbiamo insomma prendere atto che il Paese si è formato assai di più attorno ai lemmi di una sociologia spicciola che a quelli letterari. Vedasi, dunque, alle voci cambiale, signora Longari, Seicento, tinello, Sisal, terrone, mutuo, cervicale, Drive-in. Ilare quanto tragico discrimine, quest’ultimo, tra una società che guardava la televisione e una società che da allora in avanti sarebbe diventata televisione, tra una pur contraddittoria idea di bene comune e la prevalenza degli egoismi. Del resto – e questa volta le parole sono nuovamente letterarie e ottocentesche – Federico De Roberto nei suoi Viceré aveva già tutto previsto: “L’Italia è fatta, ora facciamo gli affari nostri”.

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