Ascoltare i discorsi delle persone vale una laurea in sociolinguistica. In quel teatrino del risaputo c’è, infatti, tutto un tesoretto che bene esemplifica l’uso parlato della lingua, le sue varianti a seconda dell’istruzione, delle geografie, delle estrazioni sociali dei parlanti. Sono, quelle, le parole declinate nella realtà, intercalate nella consuetudine. Quando, cioè, i dialoghi della gente palesano livelli di cultura, gerarchie, sudditanze psicologiche, rapporti interpersonali. Parole che, a differenza di quelle scritte, non richiedono grandi sforzi di progettazione e che – frequentando zone libere da dazi grammaticali e sintattici – possono avvalersi del beneficio di svarione. Parole dette de visu: poche, ripetitive, dimesse. Proprio in riscatto di tale modestia, chiedono al pronunciante lo sforzo della mimica, dell’intonazione, della prossemica, così che questi elementi vadano a costituire significati aggiuntivi alle parole stesse. Tale è, appunto, la ‘lingua viva’, esplicazione delle diverse connessioni tra lingua, società, cultura. In Italia è interessante notare come la lingua italiana, da lingua di pochi sia diventata gradualmente di tutti. Si è dunque assistito ad una standardizzazione dell’italiano, che, però, non ha soppiantato i dialetti (pur declassandoli da lingua primaria a secondaria). Permane, infatti, l’aspetto plurilingue del nostro Paese, con un italiano cosiddetto ‘regionale’, che ha inflessioni e contaminazioni dialettali e che testimonia una dinamica sociolinguistica sviluppatasi nell’arco di mezzo secolo. Sappiamo, poi, come esistano delle enclave linguistiche (e sociali) dove continua a prevalere il dialetto, così come, sempre a proposito di lingua parlata, non possono essere ignorati i gerghi di determinati ambienti (uno su tutti quello giovanile). E’ spesso da questi àmbiti che anche la lingua ‘ufficiale’ acquisisce continuamente neologismi. In ragione di tutto ciò, la lingua parlata ha contagiato anche quella letteraria, quasi facendo propria la lezione del rap (Rhythm And Poetry) che non è soltanto espressione ritmico-musicale, ma pure discorso verbale. Un modo paradossale per “recitar cantando” – ebbe a notare Edoardo Sanguineti – in cui è fondamentale la valenza del testo e il gioco verbale che esso consente. Un esempio, appunto, di impiego poetico del linguaggio quotidiano, una ibridazione che va a rompere con l’aulicità del “poetese”. Niente di scandaloso, dunque, se la scrittura letteraria (già la cultura beat lo aveva efficacemente sperimentato) si appropria di questo tipo di linguaggi che rappresentano la vita reale. Nel tempo in cui le lingue si mescolano, si fecondano, generano altre lingue e lingue ‘altre’, il parlare tra persone è quanto mai – oltre le parole – veicolo di socialità, di accoglienza o esclusione. E’ l’insistito rap (talvolta criptico e recriminatorio) che martella sul racconto di disagi, irrisolte contrapposizioni, orgogli feriti, spaesamenti, pensieri altrimenti indicibili. Allorché le parole sono fatti.