Non ho ancora deciso se l’immagine delle ceneri di Renato Bialetti chiuse dentro una caffettiera da 24 mentre vengono benedette dal prete prima della sepoltura mi fa piangere o ridere. In ogni caso, esprime un atto geniale. Ignoro le volontà di sepoltura dell’inventore della moka, che riposi in pace per la ineguagliabile felicità che ha regalato al mondo grazie ai caffé fatti con gli oltre trecento milioni di pezzi venduti, ma immagino che se lo hanno portato in chiesa per la messa di requiem dentro una delle sue caffettiere da 24 tazzine debba averlo lasciato scritto o almeno detto a note chiarissime, perché la decisione, ancorché geniale, è comunque bizzarra. Quindi, dando per scontato che l’idea di farsi cremare e poi seppellire dentro la moka fosse di Bialetti in persona, chapeau ancora una volta a questo uomo di un altro tempo che ha trovato la maniera di salutare il mondo e restarci per sempre dentro il tempo, come un’icona di creatività e gusto. Questa decisione, in realtà, mi ha fatto pensare a come gli oggetti che usiamo in cucina siano legati al nostro essere molto più di quello che vogliamo ammettere o che riteniamo possibile. I coltelli, per esempio. Nessuno che prenda la preparazione del cibo seriamente potrebbe mai dire che uno vale l’altro, ma quando la cosa si fa seria – leggi, quando parliamo di chef e affini – la faccenda diventa molto personale, al punto che la frase che nessuno vuole sentirsi dire ma che “vola” spesso nel retro dei ristoranti è: «Prendi i tuoi coltelli e vattene». Non «i tuoi grembiuli, i mestoli, le padelle, i vestiti». No. I coltelli. Quello che identifica uno chef è la capacità di saperli usare e ogni chef che si rispetti ha i suoi, personali, non cedibili. Non intercambiabili. Quindi quando lascia, o è costretto a lasciare, un ambiente di lavoro, quelli devono andare con lui, perché non potrebbe separarsene tanto che pure chi lo licenzia lo sa e lo riconosce.
Anche chi non ha un blasone culinario spesso sviluppa un’affezione per uno o più compagni di cucina. Affezione che può essere frutto dell’affinità o nascere anche per totale opposizione. Io non sono un tipo contemplativo e, sebbene con rammarico, non posso proprio mettere la meditazione fra le mie attitudini, ma ho un debole per le teiere in ghisa, quelle che si usano in Giappone per fare il té. Tanto per capirsi, quelle che solo a vederle ti viene in mente un ponticello di canne di bambù sopra un torrente in mezzo a un giardino pieno di fiori di loto e con una pagoda sullo sfondo a completare il disegno-sogno. Panciute porcellane, floreali maioliche o tecnologici bollitori in acciaio ne ho tanti, il té è una passione di lungo corso, ma le teiere in ghisa sono le uniche di cui non posso fare a meno. Una volta ne ho perduta una durante un trasloco e non ho avuto pace finché non la ho ricomprata. Il té fatto nelle teiere in ghisa viene più buono. Potete anche non crederci, ma è così. Il risultato finale è migliore, qualunque sia il tipo prescelto: il bianco sarà più delicato, il verde più profumato e il nero risulterà più intenso.
L’idea di morire non mi è mai piaciuta, anche se sono consapevole del fatto che prima o poi succederà, però ora che ho visto come ha fatto Renato Bialetti mi sento più tranquilla. Anche io potrò andarmene dentro qualcosa che amo molto. Ho deciso: seppellitemi nella mia teiera di ghisa rossa. E se tutte le ceneri non c’entrano in quella sola, usate anche la nera che è un po’ più grande: ci si fa il té per due!
LA RICETTA Preparare il té all’orientale – all’occidentale non vale la pena descriverlo – è una faccenda seria e piuttosto complessa. Non sono all’altezza. Ma posso suggerire qualche film in cui la potenza evocativa e rituale della cerimonia del té trova spazio per esprimersi, anche se con tempi e sequenze diverse. Il primo, scontato ma imperdibile, è “Morte di un maestro del té”, un film premiato (Leone d’argento a Venezia), ma anche accusato di un certo manierismo e che, proprio per la cura minuziosa di certi passaggi, serve a meraviglia la causa della conoscenza visiva della cerimonia del té. Poi ci sono “Mangiare bere, uomo donna”, “Hero”, “La tigre e il dragone”,tante pellicole che vengono dal lontano Oriente, recenti e più datate, commerciali e meno popolari, dove il té appare come un elemento di armonia e spiritualità, la bevanda dove il caldo incontra il freddo e dà spazio all’universale.