Già mi sembra di sentirlo in lontananza il coro post-elettorale intonato da coloro che, di fronte alla prospettiva di un nuovo governo di larghe intese Forza Italia-Pd o giù di lì, verranno a dirci: e allora voi che fareste? Non ci sono alternative!
Con il corollario di tacciare di irresponsabilità chi vorrà sottrarsi alla prospettiva di restare invischiato dentro altri cinque anni di palude.
Eh no, troppo facile così.
Perché il ragionamento deve partire da ben più lontano.
Dopo la “non vittoria” di Bersani alle elezioni del 2013 ed il conseguente trionfo al Congresso, Renzi aveva in mano le chiavi di un vero percorso di rinnovamento della proposta politica e dei metodi, che rappresentasse una seria alternativa alla destra ed ai populismi. Con la forza conferitagli dall’evidente fallimento della precedente classe dirigente del PD e dalla voglia di cambiamento, finanche a prescindere, che invadeva l’elettorato democratico.
C’era lo spazio per darsi una prospettiva di ampio respiro, per costruire un nuovo partito del centrosinistra in grado di dare una lettura diversa della globalizzazione e della crisi e rompere con le vecchie prassi politiche, pur nella marcata diversificazione delle posizioni interne.
Invece il PD è stato spinto dentro una stagione di governo che, iniziando dal più classico degli intrighi di palazzo stile Prima Repubblica, ha alternato da un lato una sfida ai populismi giocata tutta sul loro campo, inseguendoli sulla strada del qualunquismo e della demagogia, e dall’altro un neocentrismo di stampo moderato e la ripetizione di tutti i vecchi metodi di gestione “clientelare” della macchina legislativa.
Per accaparrarsi il consenso di un Parlamento spaesato e senza un orizzonte Renzi ha posto sul piatto la prospettiva del proseguimento di una legislatura che per sua natura era invece destinata a limitarsi a fare una nuova legge elettorale e poco più.
Ha poi deciso di giocarsi tutto in una riforma costituzionale nel migliore dei giudizi confusa ed incoerente, forzando ogni prassi costituzionale che gli è passata sotto mano, prima fra tutte quelle che i governi non si occupano di cambiare la Costituzione e men che meno di capeggiare comitati referendari. Una riforma puntellata da un’ennesima legge elettorale incostituzionale che provava a risolvere l’impasse del tripolarismo con la spregiudicata pretesa di tirare fuori dalle urne un vincitore a prescindere dal suo reale consenso elettorale, e ben guardandosi dall’andare nel campo aperto dei collegi uninominali.
Ed ha perso, Renzi, pesantemente, e insieme a lui il PD.
Oggi non gli resta che affidarsi di nuovo alla solita ancora di salvezza a cui la politica guarda quando mancano prospettive, cioè quella di chiudersi a riccio dentro la “mancanza di alternative”, e di sperare che essa trovi di nuovo soluzione dentro un governo di larghe intese dopo le prossime elezioni. Ma la mancanza di alternative, di cui la nuova legge elettorale è mero strumento realizzativo, non è un accidente della storia politica, non è uno scherzo del destino, bensì il risultato di un percorso fallimentare che ha padri e madri, e che potrebbe riportarci d’un sol colpo, come in un infinito gioco dell’oca, al punto di partenza, a quel 2013 senza alternative.
Con in più un partito antisistema come il M5S probabilmente rinforzato nel consenso e anche nei numeri parlamentari, un reviviscente centrodestra che ha trovato dentro le larghe intese ceneri feconde dalle quali rinascere ed una Lega con una nuova prospettiva nazionale costruita sull’onda della xenofobia.
Se nuove larghe intese saranno, esse sanciranno il fatto di aver buttato via cinque anni girando su se stessi, e forse con essi buttato via anche il PD, che nel migliore dei casi si ritroverebbe di nuovo dentro un’alleanza d’emergenza ormai sempre più invisa all’elettorato, sotto il tiro dei populismi e nella totale assenza di una propria autonoma proposta politica.
Ma un’emergenza che ormai dura da anni e che verrebbe riprogrammata fino al 2023 chiama in causa le responsabilità di chi non ha saputo risolverla, non di chi eventualmente dirà basta.
Dunque la vera domanda in quel caso non sarebbe “E allora voi che fareste?”, bensì: “ma vi rendete conto di cosa avete fatto?”