Su questa stessa pagina domenicale, giusto la volta scorsa avemmo modo di parlare del rapporto tra letteratura e mafie, tra la necessità di raccontare (far conoscere) quel tipo di nefandezze e il rischio che la stessa narrazione possa, al di là delle buone intenzioni, alimentare un mito sbagliato. La questione di contenuto ne richiama poi un’altra di forma. Qual è il confine tra letteratura e giornalismo? E’, infatti, dalla fine dell’Ottocento – da quando cioè il giornalista, da pedissequo cronista diventa sempre più ‘narratore’ di notizie – che i due àmbiti vanno reciprocamente ad influenzarsi. Basti pensare a nomi come Theodore Dreiser o Jack London che, nati giornalisti, finirono per diventare letterati. Ed è celebre l’aut-aut posto da Gertrude Stein a Ernest Hemingway: bisogna scegliere tra l’essere scrittore o giornalista, perché entrambe le cose non sono possibili. Hemingway fece come meglio gli parve. Continuò a fare il corrispondente dal fronte e trasferì quella sua esperienza nel romanzo Per chi suona la campana. In ambedue i casi i risultati furono niente male. Dunque: il giornalismo è letteratura? In Italia provò a dirimere la controversia Benedetto Croce con il suo breve saggio Il giornalismo e la storia della letteratura (1910), definendo “espedienti pratici” i migliori esiti letterari di certe cronache, che però, a suo parere, non potevano dirsi Arte. Diversamente la pensò Antonio Gramsci, che, invece, individuò nella prosa giornalistica una sorta di liberazione dalla lingua ridondante di D’Annunzio. Sta di fatto che le due sfere avrebbero avuto reciproche e felici invasioni di campo firmate (citiamo fra i molti) Curzio Malaparte, Orio Vergani, Dino Buzzati, Achille Campanile, Arrigo Benedetti, Pier Paolo Pasolini, Guido Piovene, Alberto Arbasino. Memorabili i reportages dall’Urss di Italo Calvino, le cronache dal Vietnam di Oriana Fallaci, il racconto dell’allunaggio scritto da Alberto Moravia, fino ai resoconti del Giro d’Italia dovuti alla penna di un poeta, Alfonso Gatto, o di una raffinata scrittrice come Anna Maria Ortese. O ancora i resoconti delle Olimpiadi di Helsinki prodotti dallo stesso Calvino, dove un titolo come questo era già letteratura: “Sembravano uscire dalla preistoria gli uomini-gazzella della Giamaica”. Dinanzi ai brutti pezzi di cronaca nera che oggi siamo soliti leggere (e sopratutto vedere nei notiziari televisivi), bisognerebbe andare a rileggersi un articolo di Dino Buzzati del 1947 (“I bambini di Albenga”) dove, senza mai cedere al dolorismo e alla eccessiva drammatizzazione, si descrive lo strazio dei parenti di quelle 43 piccole vittime che persero la vita durante una gita in mare. Tutto ciò per dire che le due strade del giornalismo e della letteratura si sono spesso incrociate e continuano a farlo con risultati di indubbia qualità. Non prestate orecchio al solito e caustico Oscar Wilde, quando insinua che “La differenza tra giornalismo e letteratura è che il giornalismo non è leggibile e la letteratura non è letta”. Non è vero, o tantomeno è un ulteriore problema.

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