Alcuni giorni fa è stato celebrato in tutto il Mondo il giorno della memoria per ricordare il 27 gennaio del 1945 quando le truppe dell’Armata Rossa, impegnate nella grande offensiva oltre la Vistola in direzione della Germania, liberarono il campo di concentramento di Auschwitz dove avevano trovato la morte non solo milioni di ebrei, ma anche rom e sinti, omosessuali, prostitute, disabili, anarchici, prigionieri di guerra e chi più ne ha più ne metta. Insomma, Auschwitz non significa solo Shoa: ad Auschwitz, come in tutti gli altri campi, si era celebrato il più grave crimine contro la diversità tutta, contro le minoranze, contro ogni forma di dissenso e di mancata accettazione dell’ideologia dominante.

shoah_mattioliSi sono tenuti molti incontri più o meno istituzionali per ricordare il dramma della Shoa ma anche per mettere in guardia le nuove generazioni dagli errori del passato e per costruire, anche attraverso la memoria, un futuro a misura d’uomo, libero dai rischi della violenza e aperto alla pace e alla solidarietà.

Avere memoria è importante e ricordare ci serve per non dare niente per scontato, per capire da dove veniamo e qual è il percorso da fare negli anni a venire; la memoria è importante perché ci serve a capire chi siamo, a definire i contenuti della nostra identità, a farci riconoscere quando ci guardiamo allo specchio o ci specchiamo nel volto dell’altro. Eppure, a qualche giorno da quella data, la memoria si è fatta corta e quella giornata è divenuta un lontano ricordo che tornerà vivo tra poco meno un anno, giusto qualche giorno prima delle celebrazioni previste per il 27 gennaio 2017.

In effetti, in meno di una settimana abbiamo assistito ad almeno un paio di fatti importanti: il primo ha a che fare con la minaccia di chiudere la frontiere europee, rivedere il trattato di Schengen e rimandare, come vorrebbe fare la Svezia, i richiedenti asilo che non hanno ottenuto lo status di rifugiato nel loro paese di origine; l’Italia, in questa fase, sembra più aperta e disponibile rispetto ad altri Paesi europei ma solo perché ha tutto da perdere da un irrigidimento delle politiche di accoglienza comunitarie. La Convenzione di Dublino, che fa dello Stato in cui il richiedente asilo ha fatto il proprio ingresso nell’Unione europea l’unico competente all’esame della domanda d’asilo e, di fatto, impedisce ai “profughi” di muoversi verso le destinazioni più ambite, colpisce più duramente gli stati cuscinetto, Italia e Grecia in testa. Ecco perché in questa fase siamo più europeisti, più solidali, più disponibili a mantenere le frontiere aperte con la tacita speranza che molti di coloro che approdano sulle coste italiane lascino il più in fretta possibile il nostro paese.

migrantiTra tutti i cittadini europei, come emerge dai dati del “Transatlantic trend immigration”, gli italiani, insieme a greci, portoghesi e spagnoli, rimangono quelli più diffidenti nei confronti degli immigrati, con rappresentazioni spesso stereotipate, che portano a guardare i fenomeni migratori solo come “problema” e quasi mai come “opportunità”. In questo clima rifioriscono atteggiamenti sempre più esplicitamente razzisti, sostenuti, se non addirittura incentivati, da gruppi e partiti politici “regolari” che fanno della lotta all’immigrazione il loro cavallo di battaglia per accaparrarsi il consenso di un elettorato sempre più impaurito, indifeso e in balia della crisi economica e del ridimensionamento dello stato sociale.

La seconda questione di cui si parla molto in questi giorni rimanda al disegno di legge Cirinnà che di fatto introduce per la prima volta in Italia diritti e doveri delle coppie omosessuali che vogliono unirsi civilmente e delle coppie eterosessuali e omosessuali che non vogliono sposarsi, ma solo registrare la loro convivenza. Anche in questo caso la politica sembra essere più attenta a cosa dicono i sondaggi, ovvero che la metà degli italiani ha un atteggiamento conservatore rispetto alla famiglia, invece di preoccuparsi dei diritti, del rispetto dell’altro o, più semplicemente, del perseguimento della felicità di tante persone. Gli italiani sono rimasti gli ultimi in Europa per quanto riguarda il riconoscimento delle coppie di fatto, etero o gay che siano, disposti a farne “questione di principio” quando invece ci sarebbe bisogno di preoccuparsi “di fatto” della vita di tutti i cittadini. In questo caso non deve prevalere una logica del “mi piace” o “non mi piace”, come ci ha abituato il pensiero unico del social network, ma occorre riflettere su cosa “è giusto” o “non è giusto”.

In questo contesto anche la memoria, celebrata con molte solennità a vari livelli più o meno istituzionali, va bene se serve per affermare i diritti e ad evitare le discriminazioni, per promuovere una vera cultura della pace e il rispetto dell’altro; altrimenti il rischio è che diventi una retorica della memoria, una sorta di memoriale a cui ci appelliamo per farci sentire in pace con noi stessi mentre continuiamo con la cultura del più forte e la negazione delle minoranze, dei più deboli, di chi ha meno voce.