La destra e la sinistra non esistono più.
Ergo non esiste più una parte politica che tradizionalmente rappresenti gli interessi delle classi, dei ceti e delle categorie più abbienti, e un’altra che viceversa rappresenti gli interessi di chi ha meno.
E di qui il “ma anche” veltroniano, il “partito della nazione” renziano: si può rappresentare tutto e tutti perché esiste un unico interesse generale ed un’unica soluzione ai problemi del Paese. Non ci sono idee diverse sul da farsi, ma solo chi vuol fare e chi vuol impedire di fare.
Mi si perdonerà la ricostruzione un po’ approssimativa, ma con questo caldo tocca tirare un po’ dritto per non sudare troppo.
Con questo caldo confesso che viene anche difficile confutare a tutto tondo, come meriterebbe, la tesi appena espressa, e mettere in discussione le relative conseguenze in termini di progetto politico del Partito Democratico.
Però possiamo prenderla da una parte e limitarci, con un esempio pratico, ad osservare che perlomeno esistono scelte politiche che avvantaggiano alcuni gruppi sociali e ne danneggiano altri.
Prendiamo l’annunciato taglio di 10 miliardi sulla sanità e mettiamolo in relazione con l’altrettanta annunciata abolizione della Tasi e dell’Imu sulla prima casa.
Intanto una prima premessa: se partiamo dal presupposto che sarebbe meglio, e che sia possibile, abolire la tassa sulla prima casa senza tagliare sulla sanità o su altri pezzi di stato sociale, allora siamo tutti d’accordo. Fermiamoci qui, inutile andare avanti e godiamoci sotto il sole d’agosto i benefici in arrivo.
Ma siccome sono stati invece annunciati sia l’abolizione che il taglio, e sarà il governo a decidere, allora forse tocca assumere la condizione come data e proseguire nel ragionamento.
Qui mi assumo una responsabilità in premessa, una pregiudiziale di verità: tagliare 10 miliardi senza ridurre i servizi non è possibile.
Chi mi crede vada avanti nella lettura, faccia un atto di fiducia.
Per chi ha deciso di proseguire un paio di considerazioni a corroborare la mia tesi: la prima è che il taglio arriverà dopo anni di altri tagli, e dunque se forse fu possibile nell’anno zero operare solo su sprechi e inefficienze, oggi appare una pia illusione.
La seconda muove dalle parole “taglieremo gli esami diagnostici che non siano strettamente necessari”, una sorta di lapsus dal sen sfuggito a molti fautori dell’intervento.
Un avverbio infatti, quello “strettamente”, che è tutto un programma. Come dire che non si interverrà solo sugli esami “non necessari”, e già qui è piuttosto difficile stabilirlo a priori quelli che non lo sono. Bensì anche su quelli che necessari lo sarebbero, ma non “strettamente”.
Insomma se ho la quasi certezza di trovarti qualcosa che non va, beh allora ti passo l’esame: non sia mai che lo Stato ti neghi una soddisfazione.
Ma se ho il dubbio, allora attendiamo che la cosa si manifesti meglio. E il cittadino stia sereno.
Già arrivati fin qui potremmo osservare che chi ha disponibilità economiche, pagando, se ne può fregare se l’esame necessario lo sia strettamente oppure no, in nome del principio che nel più ci sta il meno, soprattutto quando si tratta della propria vita; mentre chi invece non ne ha di disponibilità economiche si deve attenere all’austerity diagnostica. Non ci sarà destra e sinistra, ma privilegiati e sfigati pare di sì.
Ma andiamo oltre: l’abolizione della Tasi e dell’Imu sulla prima casa vale circa 3,5 miliardi di euro.
Dunque facendo un po’ di macroeconomia della serva possiamo dire che evitando l’abolizione si potrebbe ridurre il taglio della sanità a 6,5 miliardi. Qualche esamino in meno da tagliare ci scappa, e magari qualche malanno in più lo becchiamo in tempo anche al poveraccio che non può permettersi la sanità privata.
Se poi facciamo i conti in tasca a un cittadino che ha una prima casa normale, da impiegato a 1300 euro al mese, vediamo che basta un esame in più da doversi pagare, e già la sua Tasi annuale è superata, andata. Quantificando e aggiungendo poi tagli e taglietti annuali nel servizio che gli deriveranno dal “taglione” di 10 miliardi nazionali, si può fugare ogni dubbio sul fatto che alla fine ci rimetta: quel che risparmia con la tassa sulla prima casa, lo perde in misura maggiore sulla sanità.
Ma lo stesso non vale per chi come prima casa ha una villa, un palazzo, un’abitazione di prestigio, o comunque un’immobile dall’alta rendita catastale, perché il risparmio che ottiene dall’abolizione della tassa sulla prima casa è considerevole, e dunque ci guadagna.
Ma non vale nemmeno per le classi più abbienti che, accedendo alla sanità privata, non subiscono di fatto gli effetti del taglio sulla sanità pubblica, mentre usufruiscono dell’abolizione di Tasi e Imu.
Arrivati a questo punto di ragionamenti come il mio, solitamente attacca la contraerea, scattano da più parti i diversivi, primo fra tutti quello che recita: è immorale tassare la prima casa.
Già ma allora perché non lo è, immorale, tassare con l’irpef il primo euro che supera i 4.800 o gli 8.000 nel caso rispettivamente di lavoratori autonomi o dipendenti? (l’irpef si comincia già a pagare sopra questi redditi). Quei cittadini che hanno redditi di poco superiori alle soglie che ho indicato non sono altro che poveri, però sottrargli una parte di quel denaro eccedente, che quelle persone utilizzerebbero solo per sfamarsi, non è comunemente considerato immorale.
Oppure pensiamo ai consumi: se un disgraziato senza reddito riesce comprarsi una pagnotta di pane per non morire di fame, su quel prodotto deve pagare una tassa allo Stato, l’Iva. Non è altrettanto immorale?
Il reddito, la casa e i consumi sono solo parametri strumentali dai quali evincere quella “capacità contributiva” sulla quale l’art 53 della nostra Costituzione impone di stabilire quanto ognuno di noi debba concorrere alla spesa pubblica.
Essi non diventano oggetto di tassazione in quanto più o meno meritevoli di essere colpiti dallo Stato; i meccanismi di tassazione non muovono da un giudizio di valore e dunque non ha senso applicare un discrimine etico su quale parametro sia giusto utilizzare o meno.
Tutto si guadagna col sudore della fronte e con i sacrifici quotidiani, non ha senso affermare che solo la casa non si possa tassare perché è frutto di sacrifici. Perché il proprio reddito non lo è frutto di sacrifici? O perché la possibilità di comprare cibo per i nostri figli, e dunque consumare, non lo è altrettanto?
Il vero discrimine etico risiede nel fatto che siano i più ricchi, chi più ha, a contribuire al sostentamento di chi ha meno, dei più bisognosi, attraverso lo Stato e mediante la redistribuzione del reddito. Non risiede nel parametro scelto, che è solo uno strumento del meccanismo.
Insomma la sacralità ai fini della tassazione della prima casa è solo un diversivo, un espediente argomentativo anche un po’ vigliacco, perché basato su una distorsione concettuale difficile da smascherare, apparentemente inconfutabile, che fa leva su aspetti emotivi, ma in realtà fuorviante e pretestuosa
Tra l’altro se davvero se ne voleva fare una questione di equità allora si poteva pensare ad abolizione parziali, per i valori più bassi, come ai tempi di Prodi. Non si capisce infatti a quale principio di equità risponda abolire una tassa sulla proprietà di un palazzo a Piazza Navona.
Invece il messaggio è tutto orientato ad illudere che dal risparmio di una tassa ci guadagnino sempre e comunque tutti, ma non è così, se al contempo si taglia stato sociale. Dipende.
Ecco allora che ti rendi conto che ogni scelta politica avvantaggia qualcuno e svantaggia altri. E nel combinato disposto del taglio alla sanità e dell’abolizione della tassa sulla prima casa i meno abbienti perdono molto dal primo e risparmiano poco dalla seconda, al contrario dei cittadini più facoltosi. Il saldo finale di chi già ha meno risulta ulteriormente negativo.
Allora un partito che sostiene una politica di questo genere può anche professare di non essere né di destra né di sinistra in quanto categorie ormai superate dalla storia, ma compie comunque delle scelte che vanno incontro agli interessi di alcuni cittadini e contro quelli di altri.
Purtroppo un partito di sinistra che rinuncia ad essere partito abdicando tutto in favore delle dimensioni della leadership e del governo, ed evitando di costruirsi un blocco sociale di rappresentanza tra le classi meno abbienti, finisce anche per rinunciare ad essere di sinistra.
Perché in un Paese come il nostro, strutturalmente moderato e conservatore, in cui i successi elettorali passano anche da un sistema dei media controllato dai grandi gruppi imprenditoriali e, dopo l’abolizione del finanziamento pubblico, dal sostegno economico dei gruppi stessi (vedi le varie fondazioni politiche), una leadership e un governo senza partito e senza radicamento sociale, per mantenere e alimentare il loro consenso, non possono che diventare altrettanto moderati e conservatori.
E chi voleva rappresentare tutto e tutti finisce invece per lasciare un sacco di gente a piedi, soprattutto coloro che più faticano a camminare.