La mostra della Collezione Salini ai Magazzini del Sale non può chiudere fra quattro giorni, il 15 settembre. Prorogarla sarebbe un dovere. Ma forse, di più, un diritto. Per i senesi. Perché noi in estate siamo distratti. Si va al mare, a Follonica, a Castiglioni, a Marina. E sono pochi, quattro giorni, per rimediare. Io, visitatore “a gratis” numero 36704, sono uscito da questa mostra pieno di emozioni. E non lo so perché. Non lo so perché quei santi intrisi nell’oro che mi guardavano fino in fondo, o quelle statue grandi di donne Madonne, o quei “coccini” smaltati di verde smeraldo, mi abbiano riconciliato con il mio essere senese. Eppure è successo.
Scrivo cose di “pancia”, di fronte alle quali intellettuali, architetti trendy e rigorosi storici dell’arte, inorridiranno. Ma chi se ne frega!
Questa mostra che ti porta dentro le meraviglie esposte, senza barriere, come in una specie di cammino – senza trincee- della bellezza, ti sfida, ti incoraggia e ti costringe a misurarti. La puoi toccare. E allora ti fa pensare. Eravamo questo. Anche in una piccola tavoletta portata via da una pala d’altare. Anche in una statuetta sullo stile del Pisano, noi, a Siena, eravamo questo: spettacolari naufraghi in cerca della bellezza. Eravamo forti, a quei tempi, prima e dopo la peste. Potenti nell’economia, audaci nella politica. E di conseguenza – oppure per il contrario – audaci nella ricerca pervicace della bellezza. E questa mostra, che nello spazio di una sola estate, ci riporta a quei secoli della meraviglia e della vera grandezza – molto di più di Montaperti – mi pare un segno di conforto e di incitamento.
Mi fa tenerezza la scena vera di un uomo – il collezionista illuminato Salini, che questa mostra ci ha regalato – che torna a casa con qualcosa rincartata in un giornale, di fronte alla quale la moglie esclama: «Ma dai, ancora un’altra Madonna». Ed è una di quelle Madonne con gli occhi larghi, che io, senese, mi sento dentro come traccia di un ineludibile dna. Mi fa tenerezza quella Madonna donna che ride con il suo Bambino in collo, tenendo stretto nella mano un uccellino. E quell’incredibile Cristo crocifisso di Duccio, che tra pochi giorni immagino, silenzioso, tornare al Castello di Gallico. E rimanere lì, dormiente, tra Trequanda e Asciano. E poi, quell’altro Cristo Crocifisso, stavolta di Ambrogio Lorenzetti. Che sprizza sangue brillante come una sfida.
Ecco, tra poco più di un mese, Ambrogio avrà la sua mostra. Come è giusto. Ma e’ nella Collezione Salini, senza spocchia esposta nella splendida casa dei Magazzini del Sale, in mezzo al tremore delle sorveglianti che temono la spinta disastrosa di un disattento visitatore alla statua appesa a nulla, che ho sentito pulsare l’orgoglio di una senesita’ antica, un po’ anarchica e un po’ sbruffona. Che dobbiamo ritrovare. Per tornare ad essere capaci di sognare il futuro. O almeno il passato. E grazie a Salini, a Gianni e Donatella. Che mi hanno aiutato a capire. E anche al sindaco, che li ha ringraziati come me. Però, ora, non chiudete questa mostra. Per piacere. Per orgoglio.