E’ tornato di attualità George Orwell. Perché a lui verrebbe da ricondurre la diffusa “distopia” (termine opposto a quello di utopia per connotare una società indesiderabile) che, purtroppo, tutti ha contagiato. Ma anche perché potremmo definire orwelliana una letteratura che dello scrittore britannico sembra aver assunto le motivazioni, allorché egli affermava: “Il mio punto di partenza è sempre un senso di partigianeria, un senso d’ingiustizia. Quando mi accingo a scrivere un libro… lo scrivo perché c’è qualche bugia che voglio smascherare, qualche fatto su cui voglio attirare l’attenzione”.
Sta di fatto che certa letteratura è divenuta nuovamente politica nell’intento di raccontare “in che mondo siamo”. D’altra parte se consideriamo le nostre paure, pigrizie, sconforti, fughe…, per conoscere determinate realtà non ci resta che la narrazione. Diversamente, chi di noi si spingerebbe in territori di guerra, dentro i vicoli dove la camorra traffica ed ammazza, nei meandri urbani dell’emarginazione e della povertà, lungo le strade senza sfondo battute dai precari del lavoro? A farci praticare questi luoghi e, quindi, smuovere in noi il sentimento dello sdegno, il sussulto della presa di coscienza, sono allora le pagine in cui il documento, il dato oggettivo, incrocia, magari, il racconto fittizio. Ma il risultato è di forte coinvolgimento e così restiamo presi da ciò che potrebbe definirsi una “poetica della testimonianza”.
Il caso più eclatante è stato Gomorra di Roberto Saviano, che ha fatto riaprire dibattiti sul romanzo-réportage, sul ruolo politico degli scrittori, sul potere di denuncia dell’atto narrativo. Quanto ad esiti letterari ci sono, comunque, autori pure migliori di Saviano. Viene in mente, ad esempio, Davide Enia, che nelle pagine quasi perfette del suo racconto Mio padre non ha mai avuto un cane fa rivivere la terribile stagione degli stragi di mafia e un’atmosfera che “allora era intrisa di rabbia, oggi di rassegnazione”. Oppure pensiamo al libro di Aldo Nove sul sogno perduto di una intera generazione destinata a non diventare adulta, come colei (Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese) che dà il titolo a quella serie di docudrammi aspri e struggenti. E ancora le stralunate storie di Ascanio Celestini (Io cammino in fila indiana) che tra gli scrittori citati è forse il più raffinato per come sappia esprimere indignazione squadernando fiabe terribilmente vere. Ben tornata, dunque, scrittura di denuncia. Diceva Fortini: “La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”.