C’erano una volta le scatole dei ricordi. Già cofanetti di biscotti e chicche, ex alcove a vini di pregio o più spartani cartoni da scarpe, così riconvertiti a custodie di memorie. In nessuna casa mancavano questi scrigni cui erano state consegnate sparse citazioni di vita: fotografie, lettere, la medaglia similoro conquistata alle mini-olimpiadi, immaginette di prime comunioni, biondi boccoli recisi. Il reliquario, salvo rare ostensioni per giubilei famigliari, stava riposto nel cantuccio di armadi o cassetti, laddove una bolla di naftalina e spigo garantiva la dovuta privacy. Conservare un siffatto archivio rientrava nella manutenzione ordinaria degli affetti. Magari poteva sorgere qualche dubbio di catalogazione in caso di traslochi (solitamente finiva nello scatolone delle ‘varie’). Mentre di maggiore impegno era decidere la destinazione dei reperti, quando il suo conservatore si fosse irrevocabilmente dimesso per raggiunti limiti d’età. Tali tangibili depositi, oggi sono stati pressoché sostituiti da imprendibili contenitori le cui misure vengono calcolate in gigabyte. E’ a queste memorie esatte (e a prova d’amnesia) che affidiamo le proprie biografie e tutto ciò che ne fa corredo. Immagini, parole, suoni. I nostri ricordi e quanto di noi può lasciare ricordo. Al punto che è sorto il problema dell’eredità digitale. Se, cioè, dopo il nostro trapasso, vogliamo che i molteplici dati online, accumulati in vita, restino ‘per sempre’; ed eventualmente a disposizione di chi. Guadagnandoci, in tal modo, un’eternità nella cosiddetta ‘nuvola’ informatica (evocazione anch’essa di celestiali aldilà). Ma in tema di memorie digitali le questioni aperte vanno ben oltre le vite dei singoli. Preoccupa soprattutto quanto in esse si intenda conservare del patrimonio mnemonico dell’umanità. Poiché i supporti su cui si va archiviando di tutto, hanno al momento vita troppo precaria rispetto alle ambizioni di durevolezza. Basti pensare che negli Stati Uniti sono andati perduti tutti i dati del censimento 1960/1980. Anche i più ferventi discepoli dell’informatica sono consapevoli di certi rischi. E quasi irrisi nel sapere che, in Mesopotamia, le tavolette d’argilla che riportano il poema epico Gilgamesh hanno tremila anni o che il volume di carta più antico rinvenuto in una caverna della Cina risale all’868 dopo Cristo. E comunque. Fatta pur salva la conservazione digitale della memoria, resterebbe il dilemma sulla ‘qualità intellettuale’ della sua fruizione e trasmissione. Nel senso che l’apprendimento delle conoscenze attraverso la Rete, a giudizio di alcuni risulterebbe superficiale proprio in ragione del mezzo adoperato. Ecco, allora, riaprirsi anche la querelle tra la futile ‘divagazione’ cui indurrebbe la pagina elettronica e la fruttuosa ‘concentrazione’ assicurata, invece, dalla carta stampata. Insomma, a seconda del mezzo utilizzato, sembrerebbe come esistere un problema di ‘vestibilità’ (e valore) dei saperi, lo stesso che c’è tra il prêt-à-porter e l’abito di sartoria. A noi trovare la giusta misura.

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