Gli abitanti più anziani di Casegrandi ancora lo ricordano quel ragazzo di quartiere che degli anni Cinquanta era stato emblema e mito. Già il nome gliene dava investitura: Manrico. Con il personaggio verdiano del Trovatore condivideva una misconosciuta progenie (in tal caso da parte di padre) e poco più. Perché il suo impeto di ventenne non manifestava nulla di guerresco, ma solo la simpatia di un carattere che sarebbe stato limitante definire estroverso. Contribuiva al bilancio di famiglia con commerci ovviamente illeciti. Sigarette, accendini americani, cravatte, calze da donna e merce varia, a seconda di quel che gli fornivano i suoi ‘grossisti’ di fiducia. Ma a fare di lui un idolo era la Vespa, che gli era necessaria non tanto per gli spostamenti, quanto per potersi muovere nel traffico di una vita che dopo la guerra aveva ripreso rapidamente a sperare. E allora avanti brum brum porca miseria (perché la miseria era davvero porca), verso qualcosa che già lasciava intuire benessere. Se non altro per permettersi il lusso che anche ai poveri è concesso: quello di sognare. La Vespa di Manrico rappresentava un po’ questo, per tutti coloro che la sbirciavano parcheggiata dentro l’androne dove al consueto afrore d’umido e cavolo si era aggiunto ora l’effluvio gomma e benzina della modernità. Vespa 125 del 1951, proprio quella su cui Gregory Peck, in “Vacanze romane”, aveva scorazzato per le strade di Roma la principessa Anna. Ragazzi – disse Manrico, quando la portò tornando da una delle sue misteriose trasferte – guardate che roba, due fili flessibili al cambio, l’ammortizzatore idraulico aggiunto alla sospensione anteriore…, chi vuole venire a farci un giro? Quasi tutti, a turno, intesero provare che effetto facesse attraversare la noia veloci veloci. E tornavano che parevano stati all’esposizione universale di Parigi. Le sorprese per la compagine dei perdigiorno non finirono comunque lì. Giunse infatti una sera in cui il motore della 125 già in lontananza sembrò più garrulo del solito. Quando la Vespa apparve in fondo alla strada, dietro ai riccioli neri del centauro si scorse svolazzare qualcosa di biondo (biondo platino). Avvinghiata a lui c’era una donna, amazzone un po’ sovrappeso e d’età. Anch’essa comparsa dal nulla come la merce che Manrico riusciva a procacciarsi. La tardona fu onorata di timidi saluti e, a seguire, di circostanziati commenti. Originaria del Nord Italia, nient’altro trapelò mai del suo curriculum vitae, così che la gente dovette inventarselo. Da allora le partenze in Vespa furono quasi sempre a due. Ulteriore motivo d’invidia per gli stanziali spettatori che della coppia aspettavano il ritorno fantasticando amplessi al riparo di pagliai e indagando sui loro volti il sorriso delle appagate libidini. Manrico e la bionda salirono in Vespa anche il giorno in cui decisero di andare a far fortuna altrove. Pionieri, a loro modo, della nuova frontiera, girarono il cavallo di lamiera verso Ovest. Il vento tra i capelli, lo sguardo dritto in direzione del possibile.