Quando Charles Dickens, verso la metà dell’Ottocento, attraversò le Crete senesi, rimase negativamente colpito da quei luoghi “desolati e selvaggi” che tanto assomigliavano allo “squallore e alla solitudine delle brughiere scozzesi”. Una trentina d’anni prima, in un freddo inverno del 1817, vi era transitato Stendhal e pure lui registrò sul suo taccuino di viaggio la veduta di un “seguito di collinette vulcaniche, coperte di vigne e di bassi olivi” per concludere che mai aveva trovato “niente di più brutto”. Sarebbe, dunque, dovuto passare del tempo e nascere una diversa idea di paesaggio prima che la penna poetica di Mario Luzi (e di altri scrittori) parlasse di quelle stesse lande come di un paesaggio dell’anima. Una terra che, diceva giustappunto Luzi, “eccita ed alimenta la condizione enigmatica dell’uomo; la rappresenta e l’asseconda”. Perché – sempre secondo il poeta – ciascuno di noi “ha dentro sé perplessità dense di mistero che qui trovano un luogo”. Ciò per significare che la veduta di un paesaggio, e soprattutto la sua intima percezione, può cambiare nel tempo. Al pari dell’azione dell’uomo – il quale della terra modifica orografie, colori, vita – anche la cultura, i parametri estetici che essa produce, intervengono a ‘modificare’ un territorio; che, pertanto, non è definibile una volta su tutte, poiché sottoposto a descrizioni mutanti, a stratificazioni di racconti, a un suo continuo divenire. Forse tutto cominciò con il Romanticismo, con il Grand Tour, il cosiddetto viaggio di formazione, allorché al manuale di viaggio semplicemente descrittivo si aggiungerà la proiezione psicologica di stati d’animo e di riflessioni che scaturivano dalla seduzione dei luoghi. Nascerà così il “viaggiatore sentimentale”, titolo del libro del britannico Laurence Sterne pubblicato nel 1768 e reso celebre in Italia dalla versione di Ugo Foscolo edita nel 1813. E con un siffatto viaggiatore, ecco generarsi lo scambio fra sentimento e scena paesaggistica. Dalla “vista” di un paesaggio si passa alla sua “visione”. Esso non trova soltanto la descrizione estetica, ma anche estatica. Viene fondata la categoria del “pittoresco”, la degustazione estetizzante, consolatoria e nostalgica di un luogo, il suo racconto emotivo. Non basta più la geografia a dire come “è” un determinato posto, si vuole conoscere quello che “sembra”. A ben pensarci, ancora oggi – pur con il modo frettoloso e consumistico delle nostre escursioni – questa predisposizione sentimentale verso i luoghi perdura. La letteratura ha dato il suo notevole contributo nel creare mito e retorica di certe località e di interi territori. La citazione letteraria (che deborda sovente nelle guide turistiche, nei documentari, nei materiali promozionali, nei resoconti di viaggio) ne perpetua le suggestioni. Gli stessi residenti hanno la consapevolezza estetica ed emozionale del “dove” vivono, alimentano a loro modo la narrazione mitologica del luogo. Insomma: quel paesaggio ha un “senso” e dà senso a chi lo attraversa, a chi lo abita.