Ci risiamo: l’ennesima indagine sullo sfruttamento del lavoro immigrato, anche se questa volta emergono alcuni aspetti non proprio banali. Intanto la cronaca. Pochi giorni fa, siamo ai primi di maggio, un’inchiesta avviata da alcuni mesi da magistratura e forze dell’ordine ha fatto emergere un nuovo caso di caporalato in agricoltura: questa volta però non si tratta delle serre del ragusano, del tavoliere pugliese ne tanto meno della raccolta di pomodori a Castel Volturno ma si tratta della Toscana, della ricca agricoltura del vino, quella più cool, più fashion, che finisce spesso sulle riviste patinate e che è riuscita a fare di un territorio impervio un brand mondiale. Richiedenti asilo residenti in una struttura di accoglienza a Prato reclutati da altri immigrati partivano alla volta del Chianti per andare a lavorare a 4 euro l’ora, talvolta per 2 euro l’ora, come ha evidenziato l’indagine, per 12 ore al giorno, nelle vigne di rispettabilissime imprese agricole chiantigiane.
Due questioni sono a mio avviso interessanti. La prima riguarda il fatto che sono coinvolti richiedenti asilo, regolarmente inseriti all’interno dei centri di accoglienza. Come forse non tutti sanno, rispetto ai 35 euro pro die a persona stanziati per gestire questa emergenza umanitaria, in realtà sono solo 2 gli euro al giorno a finire nelle tasche dei richiedenti asilo. Ciò restituisce una situazione difficile: molti di loro hanno bisogno di inviare denaro nel paese di origine per sostenere la famiglia o organizzare la fuga di altri parenti, altri hanno la necessità di accumulare un po’ di risparmi per riprendere il viaggio verso il nord Europa, altri ancora hanno semplicemente la volontà di togliersi dall’inedia quotidiana e di lavorare, “costi qual che costi”. In queste condizioni diventa facile accettare tutto, compreso un lavoro che non è solo sottopagato ma è al limite della schiavitù: violenze fisiche, ricatti, intimidazioni, tutto sempre in nome del Dio denaro, come ha evidenziato l’indagine.
Si dirà che si tratta di “immigrati che sfruttano altri immigrati”, che “fanno tutto tra loro”. Troppo facile. Questa volta ha ragione Enrico Rossi, Presidente della Regione Toscana, quando dice che «vanno chiamati in causa anche gli imprenditori che consapevolmente ne usufruiscono». Troppo facile trincerarsi dietro un “è tutto regolare, ho un contratto con una ditta di contoterzisti”. Formalmente questi imprenditori agricoli possono avere anche ragione ma moralmente? Non gli viene qualche dubbio quando trovano chi offre prezzi oggettivamente al di sotto del sostenibile? Perché non denunciano invece di diventare conniventi?
Tra l’altro, a mio avviso, occorre fare attenzione perché ci sono due rischi: poiché non è la prima volta che emergono forme di sfruttamento esasperato (ricordo l’estate scorsa un fatto analogo, quando venne scoperta una filiera di caporalato di immigrati che da Grosseto si spostavano quotidianamente verso il Chianti, San Gimignano e altre belle zone toscane) potrebbe partire una campagna pubblicitaria negativa verso il vino toscano. Qui stiamo parlando di beni di un certo lusso, dove l’immagine e la reputazione svolgono un ruolo importante e la concorrenza internazionale è sempre più agguerrita per cui basta poco a compromettere il lavoro di valorizzazione durato decenni. La seconda questione riguarda la tenuta economica del settore: rivolgersi al caporalato significa ricorrere al doping per provare ad essere competitivi ma drogarsi non fa bene, ne ad un atleta ne ad un imprenditore. Possono aumentare le performance nel breve periodo ma nel lungo periodo è improbabile riuscire a garantire gli stessi risultati. In Toscana, prima che in agricoltura, il caporalato si era diffuso in edilizia tra gli anni ’80 e i ’90 facendo fare grandi affari a pochi imprenditori ma radendo al suolo un intero settore fatto di maestranze, artigiani, professionisti. Non sarà certo responsabilità esclusiva del caporalato se un intero settore come quello dell’edilizia è andato a gambe per aria, ma di certo l’intera riorganizzazione del lavoro ha contribuito a puntare più sulla quantità che sulla qualità, costruendo troppo e male, erodendo terreno e così via.
Ecco, l’agricoltura oggi deve fare attenzione a non farsi prender la mano: se c’è bisogno di manodopera immigrata in questo settore sempre più trainante per l’economia toscana è positivo. Però la si regolarizzi, si faccia formazione e si coinvolgano anche questi lavoratori nel mantenimento dell’eccellenza. Ancora una volta l’integrazione risulta un passaggio decisivo non solo per costruire una società più solidale ma anche per garantire la sostenibilità di settori economici rilevanti per tutti i toscani.