Altri tempi quelli in cui si parlava di letteratura ‘specchio della società’, allorquando sistemi ideali e ideologici fornivano giustappunto interpretazioni letterarie come rispecchiamenti della realtà. Tanto che un romanzo poteva ‘spiegarci’ il presente che stavamo attraversando. O, viceversa, sembrava che i processi sociali in atto fossero delle perfette esemplificazioni di ciò che un autore – guarda caso – aveva pensato e scritto. Era insomma la drammatizzazione della società, giocata tra una sorta di poetica storica e di esegesi sociologica. Ma ovviamente i termini della questione erano più complessi e non sempre i mondi letterari erano il mondo. Finché giunse (certo, non improvvisamente) il postmodernismo che, come qualcuno ha ritenuto di dover precisare, più che un ‘dopo’ cronologico rappresenterebbe il superamento di un modo di porsi rispetto alla modernità: né ‘contro’ né ‘oltre’, piuttosto in maniera… diversa. Diciamo che può dirsi postmoderno quanto oggi risulta sempre più spesso indefinibile, comunque complicato, relativo, con/fuso, sincretico. E a suo modo anche la letteratura (quella che passa il convento) dà conto di questa postmodernità globalizzata e frammentata. Prevalentemente essa narra di antieroi che dalla loro marginalità (quasi sempre dalla loro sconfitta) indicano, rifiutano e implicitamente condannano la società attuale. Il fallimento individuale coincide così con quello collettivo. Intendiamoci, l’idea non è proprio nuova: basti andare a rileggere il Werther di Goethe o il foscoliano Jacopo Ortis per assistere allo scacco di esistenze mortificate dall’universo sociale in cui vivono e che rende loro impossibile qualsiasi tipo di azione o di impresa ‘eroica’. Antieroi, dunque, dentro un mondo che, alla maniera di un disperante ossimoro, si agita continuamente nella più assoluta immobilità. Tale risulta per lo meno il mondo occidentale da qualunque angolo sia guardato (e vissuto). Possono esserci forse differenze di percezione che variano tra una zona e l’altra del globo (zone non solo geografiche ma anche culturali ed esperienziali). Per mitigare il disagio potremmo pure dire che è sempre più comodo osservare (e perché no, irridere) l’universo dagli angoli della sua provincia che dal plumbeo anonimato delle sue città. Magari seduti a un bar della periferia del mondo, dove l’accidia può essere sorseggiata, con un amaro, fino alla soglia della completa inettitudine. O al racconto di essa, che in tal caso opererebbe come provvidenziale salvezza: letteraria?