Terra, fatica, passato, nostalgia, crisi, forse futuro. La poesia e la maledizione, il profitto e la gratuità, il podere e il mondo, il piccolo e il globale, l’economia per l’uomo e l’uomo per l’economia. Questo il repertorio che, tutto insieme, mi affollò i pensieri lo scorso ferragosto mentre stavo attraversando la campagna umbra. Nei campi i fuochi delle stoppie, i falò dell’Assunta, il rendimento di grazie alla munificenza degli dèi. Gli odori devastavano la notte e la felicità d’esistere delle cose. C’era nell’aria qualcosa di maestosamente perfetto. Dopo il raccolto, la spoglia distesa dei campi testimoniava un lavoro umano grandioso, commovente. Ma il flusso dei sentimenti ha talvolta difficoltà a disancorarsi dalla concretezza dei giorni. Allora quel paesaggio che vantava l’aggettivo di ‘agricolo’, andò anche a popolarsi di persone, problemi, numeri. In Italia, delle 845.000 imprese, giustappunto agricole, 50.000 avevano cessato l’attività, un 30 per cento si dibatteva in grosse sofferenze finanziarie. Altre grandi cifre sgranavano un rosario di misteri dolorosi. Ad ogni numero una ragione, un sospiro: calo del potere d’acquisto delle famiglie, riduzione dei consumi, supermercati, frodi e agro-pirateria, produrre a costo 40 ed essere pagati 30, mutui implacabili e soldi che purtroppo non si zappano. Mi chiedevo, e replico ora l’interrogativo: già finito il nuovo tempo (aveva fatto seguito all’esodo dalle campagne di metà Novecento) in cui di agricoltura si poteva vivere? Ciò era stato possibile grazie a una mentalità imprenditoriale, alla tecnologia, all’alternarsi di generazioni, a un mutamento antropologico, culturale dei suoi protagonisti. E quindi: quale altro capitolo sta per scriversi, oggi, della lunga storia dell’agricoltura? Che è in definitiva la storia dell’uomo e della sua sussistenza, la condicio sine qua non…, perché gli umani, alimentando il corpo, possano permettersi pure il lusso dello spirito. Ma non solo. Agricoltura significa un rapporto speciale con la natura, il paesaggio, il tempo (quello delle stagioni, della storia, dell’esistere). Trentacinque anni fa (1978) aveva fatto discutere molto il film di Ermanno Olmi, L’albero degli zoccoli – una rappresentazione troppo idealizzata, si disse – che narrava la vita di fine Ottocento in una cascina della Bassa bergamasca. La miseria e la dignità di quei contadini, il lavoro, la pietas, il fato, la rassegnazione. Diverso racconto dal sanguigno Novecento di Bernardo Bertolucci (1976), che del mondo contadino – in tal caso quello emiliano – aveva esaltato soprattutto il ruolo politico svolto nel riscatto del proletariato dallo sfruttamento padronale. Storia che fu. Memoria, lotte, poi progresso e innovazione. Valori antichi e fresche capacità che dovranno pur reinscriversi in questo nostro mondo dove, da un emisfero all’altro, 800 milioni di persone soffrono la fame, 2 miliardi la malnutrizione, oltre 5 milioni di tonnellate di cibo viene annualmente sprecato. Inevitabile il quesito: terra madre o malvagia matrigna?