La trasformazione di una federazione di partiti, l’Ulivo, in un partito, il Partito Democratico, rappresentò dieci anni fa la scommessa di ricondurre all’interno di un unico soggetto politico la dialettica tra il centro cattolico che guardava a sinistra e quella sinistra che aveva imboccato la via socialdemocratica, provenendo dall’esperienza del Pci, ma non solo. Trasformare cioè il centrosinistra da coalizione in partito. Una scommessa che oggi, col senno di poi, comprendiamo che ci apparve possibile soprattutto perché c’era in campo un personaggio politico come Walter Veltroni che in quel momento rappresentò in un certo senso l’incarnazione stessa del progetto.

Il mio qui non vuole essere un giudizio di merito sulle capacità politiche del personaggio, ma solo l’osservazione che egli, alla nascita del Pd, riusci a rappresentare simbolicamente, con il suo provenire dal Pci pur “non essendo mai stato comunista”, con quel “I care” di ispirazione cattolica e con un tocco di americanismo, la sintesi in chiave moderna delle varie tradizioni politiche che entravano nel Pd. Con l’aggiunta di un accenno di innovazione comunicativa e di uno sguardo lanciato verso il presidenzialismo d’oltreoceano, ma bilanciato da un rassicurante “ecumenismo” politico. Una miscellanea di vecchio e nuovo, operaismo ed impresa, cui la location e le parole del “Discorso del Lingotto” conferirono la forma di una possibile nuova storia del riformismo nostrano.

Apparve, dunque, possibile, oltre che auspicabile, che i rapporti di forza tra il centro e la sinistra si giocassero dentro un unico partito, sottraendoli alla competizione elettorale tra la Margherita ed i Ds. Un quadro che, nonostante l’esperienza di Veltroni alla guida del Pd si sia poi rivelata brevissima e tormentata, ha più o meno retto sia con la segreteria Franceschini che con quella Bersani, anche se in un permanente stato di conflittualità.

Ma il castello è crollato l’8 dicembre 2013 quando, con l’arrivo alla segreteria di Matteo Renzi, è diventato palese che il Pd serbava dentro il suo statuto meccanismi che permettevano al vincitore delle primarie di appropriarsi del controllo totale del partito, se questa fosse stata la volontà del vincitore. E in Renzi è stata volontà programmatica palese, mai nascosta, in nome del “con me non ci saranno più i caminetti” e del “chi vince guida il partito e con tutti gli altri ci rivediamo al Congresso successivo”

La premessa ontologica del Pd non è stata più la dialettica tra le sue due anime, l’uso degli organismi e dei congressi per rappresentare ed equilibrare i rapporti di forza interni tra esse, l’incontro tra il centro e la sinistra, oltre che tra laici e cattolici, in un progetto comune di partito e di Paese. Al posto di ciò si è affermata una logica presidenzialista e ipermaggioritaria fondata sul chi vince prende tutto.

Una logica che stava già lì, scritta nelle carte statutarie e che, vuoi un po’ per autolimitazione e un po’ per il non poter contare su quella coesione granitica della propria maggioranza sulla quale invece ha potuto contare Renzi, i precedenti segretari non avevano portato alle estreme conseguenze.

Paradossalmente ciò è avvenuto proprio in coincidenza con la tanto auspicata ricomposizione della classe dirigente su altre basi che non fossero più quelle delle precedenti appartenenze Margherita – Ds.

Ricomposizione alla quale però ha seguito da un lato un’ancora più profonda e netta divisione programmatica e valoriale tra la visione politica del centro e quella della sinistra, in un contesto in cui la prima, prevalendo nei congressi e affermandosi quale dimensione di governo attraverso Renzi, è diventata dominante.

Dall’altro lato in una cesura comunicativa tra il vecchio ed il nuovo, che ha rinchiuso strumentalmente dentro la prima categoria tutti gli sconfitti ai congressi, a prescindere dalle loro storie e proposte politiche. Con scarse possibilità di ribaltare i rapporti di forza, come dimostrato dagli esiti dell’ultimo congresso. Perché chi ha perso la competizione interna ha perso con essa anche la speranza di poter tornare a dire la propria producendo qualche effetto concreto nella linea del Pd, oltre che il proprio sentimento di appartenenza, ed ha ormai da tempo cominciato ad andarsene, indisponibile non solo a partecipare alla vita interna del partito, ma anche a votare alle primarie. Un esodo inarrestabile di quei militanti e di quegli elettori che non si riconoscono in Renzi e nel renzismo che precede e va poi al di là delle scissioni ufficiali dei ceti politici.

Il tutto pur con encomiabili sacche di resistenza ad oltranza tra i dirigenti e gli eletti nelle istituzioni appartenenti alla sinistra interna, ma che la prevedibile progressiva riduzione degli spazi politici che Renzi concederà loro minaccia di fiaccare ulteriormente e svuotare di prospettiva.

Una scommessa dunque, quella del Pd, che appare persa nel momento in cui la dialettica tra il centro e la sinistra è finita dentro un gioco a somma zero, in cui una parte ha vinto tutto e l’altra perso altrettanto.

Tanto che se oggi si parla di centrosinistra lo si fa non più considerandolo possibile dentro un partito, bensì tornando a pensarlo e progettarlo tra partiti diversi, nel contesto di un ritorno al sistema proporzionale e alle sue alleanze, nonché rievocando i fasti de l’Ulivo che, appunto, non era il partito del centrosinistra ma la sua coalizione. Sempre che nel frattempo lo scenario politico non sia mutato così in profondità da ridurre tutto ciò ad un mero esercizio retorico.

foto di HartemLijn scaricata da Wikipedia