La letteratura è conoscenza, viaggio, emozioni, scoperta di se stessi, degli altri e del mondo. Ne troveremo conferme anche in questa rubrica che, settimanalmente, proporrà frammenti d’autore. Un piccolo “manuale d’uso” per i nostri giorni comuni e, soprattutto, per i sentimenti che dentro quei giorni abitano.
Il lavoro è cambiato, il lavoro non c’è, il lavoro non è più una realtà ma un problema. Ne sono cambiati i luoghi, le politiche, la cultura, le modalità. Sarebbe interessante ascoltare il parere del protagonista del romanzo di Primo Levi “La Chiave a stella” (1978). Quel mitico Faussone che Levi ideò come personificazione del vivere positivo, dell’essere in pace con se stessi e con il mondo. Nulla di eclatante faceva Faussone, se non il fatto di lavorare bene, con coscienza. Sempre sospeso tra terra e cielo, munito della sua chiave a stella, ad assicurare i tiranti dei tralicci. In tal modo si realizzava e così ispirava fiducia negli altri. Una fiducia verso l’uomo in quanto tale.
Siamo rimasti d’accordo su quanto di buono abbiamo in comune. Sul vantaggio di potersi misurare, del non dipendere dagli altri nel misurarsi, dello specchiarsi nella propria opera. Sul piacere del veder crescere la tua creatura, piastra su piastra, bullone dopo bullone, solida, necessaria, simmetrica e adatta allo scopo, e dopo finita la riguardi e pensi che forse vivrà più a lungo di te, e forse servirà a qualcuno che tu non conosci e che non ti conosce. Magari potrai tornare a guardarla da vecchio, e ti sembra bella e non importa poi tanto se sembra bella solo a te, e puoi dire a te stesso “forse un altro non ci sarebbe riuscito”.
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Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.
[Primo Levi, da La chiave a stella]