penna-e-calamaioLa letteratura è conoscenza, viaggio, emozioni, scoperta di se stessi, degli altri e del mondo. Ne troveremo conferme anche in questa rubrica che, settimanalmente, proporrà frammenti d’autore. Un piccolo “manuale d’uso” per i nostri giorni comuni e, soprattutto, per i sentimenti che dentro quei giorni abitano.

La scena aveva qualcosa di emblematico. Ai giardini pubblici un bambino scendeva e risaliva sullo scivolo con grande impegno. Accanto, sulla panchina, il giovane padre leggeva il libro di Massimo Recalcati “Il complesso di Telemaco”. Pagine dove lo psicoanalista affronta il rapporto figli/padri nell’epoca odierna che sembra non ospitare più la differenza tra generazioni. Dopo il tramonto dell’autorità paterna – dice Recalcati – abbiamo avuto l’egemonia del figlio-Narciso. Ora le nuove generazioni appaiono sperdute tanto quanto i loro padri. Questi non vogliono smettere di essere giovani, i loro figli annaspano in un tempo senza orizzonti, soli, privi di adulti credibili.

Sulla panchina, il giovane padre – probabilmente ancora non del tutto emancipato dal suo essere figlio – leggeva preoccupato. A me è tornata in mente la lunga drammatica “Lettera al padre” di Franz Kafka, scritta e mai consegnata al genitore.

Carò papà, recentemente mi hai chiesto perché io affermi di avere paura di te. Come sempre non ho saputo risponderti, in parte proprio per la paura che provo nei tuoi confronti, in parte perché i particolari che concorrono a motivare questa paura sono troppi perché io riesca in qualche modo a metterli insieme in un discorso; e se ora provo a risponderti per iscritto, sarà comunque una risposta molto incompleta, perché anche nello scrivere mi intralciano la paura nei tuoi confronti e le conseguenze, e perché la vastità della materia supera di gran lunga la mia memoria e la mia intelligenza.

[…]

Già soltanto la tua corpulenza mi schiacciava; mi ricordo le tante volte che ci siamo spogliati nella stessa cabina: io magro, debole e sottile; tu forte, alto e robusto. Già nella cabina mi facevo compassione e non solo di fronte a te, ma di fronte a tutto il mondo, perché tu eri per me la misura delle cose.

[…]

Tutte le idee apparentemente sottratte alla tua dipendenza erano fin da principio gravate dal tuo giudizio negativo; e reggere questa situazione fino a manifestare un pensiero in maniere completa e compiuta era quasi impossibile. Non parlo di pensieri particolarmente elevati, ma di una qualsiasi piccola iniziativa infantile. Bastava essere felici per una cosa qualunque, esserne presi, tornare a casa, raccontarla, e la risposta era un sospiro ironico, un crollare la testa, un tambureggiare con le dita sul tavolo: «Ho visto di meglio», oppure «Se i tuoi pensieri sono tutti qui», oppure «Ho ben altro per la testa, io», o anche «E che te ne fai?», o infine «Senti un po’ che avvenimento!». Naturalmente nessuno pretendeva che ti entusiasmassi per ogni sciocchezza infantile quando avevi le tue preoccupazioni. Non si tratta di questo. Si trattava della delusione che tu infliggevi al bambino sempre e per principio, spinto dal tuo carattere contraddittorio, e inoltre questo spirito di contraddizione si rafforzava incessantemente con l’accumularsi dei motivi che lo provocavano, cosicché alla fine si imponeva come qualcosa di abituale, anche quando, per una volta, eri della mia stessa idea; inoltre le delusioni patite dal bambino non erano delusioni qualsiasi, ma colpivano in profondità giacché provenivano da te, l’autorità suprema. Il coraggio, la decisione, la fiducia, la gioia per questo o per quello non resistevano fino in fondo se tu eri contrario o anche solo se la tua contrarietà era prevedibile; e del resto era prevedibile per la quasi totalità delle mie azioni. […]

[…]

Tu possiedi, credo, un talento educativo; a un individuo del tuo stampo avresti potuto sicuramente giovare, avrebbe riconosciuto la ragionevolezza di quanto gli dicevi, non si sarebbe preoccupato d’altro e si sarebbe tranquillamente comportato di conseguenza. Ma per me bambino tutto ciò che mi intimavi era comandamento celeste, non lo dimenticavo mai, restava per me il metro più importante per giudicare il mondo, soprattutto per giudicare te stesso, e qui fallisti completamente.

[da “Lettera al padre” di Franz Kafka]