La letteratura è conoscenza, viaggio, emozioni, scoperta di se stessi, degli altri e del mondo. Ne troveremo conferme anche in questa rubrica che, settimanalmente, proporrà frammenti d’autore. Un piccolo “manuale d’uso” per i nostri giorni comuni e, soprattutto, per i sentimenti che dentro quei giorni abitano.
François Villon (1431-1463) è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi poeti di tutti i tempi. Sbrigativamente definito ‘poeta maledetto’, la sua opera (la sua leggenda) ha molteplici sfaccettature che, come annotò Mario Luzi, va considerata tra maniera e autenticità, tra gioco goliardico e tragica confessione. Oggi ci siamo spinti vino a considerarlo un antesignano del rap. Sta di fatto – fu ancora Luzi a scriverlo – che «nel suo flusso ritmico di compianto e di malizia la sua arte rude ma duttile ha fatto vivere in tutte le pieghe, in tutte le sue smorfie mutevoli un volto umano disarmato in cui, a parte le sue tracce patibolari, potremo riconoscerci noi, uomini appunto della “crisi dei valori”».
Fratelli umani, che ancor vivi siete,
non abbiate per noi gelido il cuore,
ché, se pietà di noi miseri avete,
Dio vi darà più largo il suo favore.
Appesi cinque, sei, qui ci vedete.
La nostra carne, già troppo ingrassata,
è ormai da tempo divorata e guasta;
noi ossa, andiamo in cenere ed in polvere.
Nessun rida del mal che ci devasta,
ma Dio pregate che ci voglia assolvere.
Se vi diciam fratelli, non dovete
averci a sdegno, pur se fummo uccisi
da giustizia. Ma tuttavia, sapete
che di buon senno molti sono privi.
Poiché siam morti, per noi ottenete
dal figlio della Vergine celeste
che inaridita la grazia non resti,
e che ci salvi dall’orrenda folgore.
Morti siamo: nessuno ci molesti,
ma Dio pregate che ci voglia assolvere.
[F. Villon, da L’epitaffio di Villon (Ballata degli impiccati)]