La letteratura è conoscenza, viaggio, emozioni, scoperta di se stessi, degli altri e del mondo. Ne troveremo conferme anche in questa rubrica che, settimanalmente, proporrà frammenti d’autore. Un piccolo “manuale d’uso” per i nostri giorni comuni e, soprattutto, per i sentimenti che dentro quei giorni abitano.
Alla fine di gennaio, nei mesti giorni dell’inverno, torna ogni anno la Giornata della Memoria a ricordarci il dramma, la follia, il paradosso della Shoah. Nella triste geografia di quel ricordo c’è un nome: Terezin. Fu il maggiore campo di concentramento nazista sul territorio della Cecoslovacchia, costruito come transito per gli ebrei che dal Protettorato di Boemia e Moravia venivano deportati verso i campi di sterminio dei territori orientali. Vi furono deportate 150.000 persone, fra cui 15.000 ragazzi di un’età compresa tra i 12 e i 16 anni. Di questi ne sopravvissero appena 100. La testimonianza di quelle giovani creature è giunta a noi attraverso quattromila disegni e sessantasei poesie. Un adolescente di nome Pavel Friedman chiedeva di vivere, «senza vedere dissolversi i nostri numeri». La supplica non venne esaudita. Da Terezin fu deportato ad Auschwitz, dove trovò la morte a soli 15 anni.
Paura
Oggi il ghetto prova una paura diversa,
stretta nella sua morsa, la Morte brandisce una falce di ghiaccio.
Un male malvagio sparge il terrore nella sua scia,
le vittime della sua ombra piangono e si contorcono.
Oggi il battito di un cuore di padre narra del suo terrore
e le madri nascondono la testa tra le mani.
Adesso qui i bimbi rantolano e muoiono di tifo
il loro sudario sconta un’amara tassa.
Il mio cuore batte ancora nel mio petto
mentre gli amici partono per altri mondi.
Forse è meglio – chi può saperlo? –
assistere a ciò oppure morire oggi?
No, no, mio Dio, voglio vivere!
Senza vedere dissolversi i nostri numeri.
Vogliamo avere un mondo migliore,
vogliamo lavorare – non dobbiamo morire!
[Pavel Friedmann, 1929-1944]