Operazione svuota Province riuscita. Sebbene non ancora abolite (ci vuole una riforma costituzionale) sono di fatto svuotate. Se non di funzioni, che anzi in alcuni casi permangono e in altre sono demandate a Regioni e Comuni, bensì della possibilità dei cittadini di eleggerne i rappresentanti. E mi chiedo se ci voleva proprio un Presidente del Consiglio toscano a svuotare la Democrazia e indebolire il peso dei territori e della loro rappresentanza elettiva.
Dal prossimo maggio, infatti, avremo una scheda elettorale in meno. Con quali risparmi non sappiamo. Di certo avremo una possibilità di scelta in meno, sebbene tutto il sistema della comunicazione si sforzi di dirci che è un passo in avanti. Come se diminuire nel Popolo la possibilità di scegliersi i rappresentanti sia un miglioramento.
Non so a voi, ma a me sembra che stiano provando a fregarci. Un po’ come la discussione in corso sull’abolizione del Senato, che poi abolizione non sarà. Anche in quel caso si tratterà di uno svuotamento di competenze e trasformazione in un organo composto – in modo random – da personalità indicate dal Presidente della Repubblica più consiglieri e presidenti regionali e sindaci di città e comuni. Magari di città capoluogo che con un’unica elezione potranno così ricoprire non una ma tre cariche (Sindaco, Presidente di Provincia e Senatore). Proprio il caso di dire candidato uno e trino.
Dicono che lo fanno per risparmiare. E se poi qualcuno critica questo speedy riformismo allora è un “parruccone”, un “solone”, un “conservatore”. Cambiare verso è la parola d’ordine di questi tempi. Ma cambiare verso alla Democrazia porta solo a forme di potere ben peggiori. O no?
Di fronte a quello che appare un destino ineluttabile mi ha sorpreso il silenzio assordante di chi nelle Province era stato eletto per rappresentarle. Agnelli sacrificali che non se la sono sentita di far vibrare alta la loro voce. Hanno preferito andare dietro al vento e borbottare qualcosa. Come se avessero paura a difendere non tanto la poltrona quanto l’Istituzione che rappresentavano. Le parole di Saitta (presidente Upi) ne sono lo specchio. Peccato.
Con loro anche il silenzio dei partiti che di fatto sempre di più sembrano destinati ad una brutta fine. Queste settimane di campagna elettorale per le elezioni amministrative, infatti, confermano che i Tavoli provinciali delle coalizioni e le organizzazioni provinciali dei partiti sono diventati improvvisamente se non inutili almeno poco significativi, visto che ormai in ogni Comune a decidere, a fare e disfare alleanze, a indicare uomini e donne, sono le situazioni e i potentati locali. Con il rischio che la Politica finisca stritolata in favore degli interessi di gruppi e di potere municipali.
Cosa rimane? Il voto per le Regioni, la Camera e il Parlamento Europeo, tutti a liste bloccate, così che non possiamo scegliere nemmeno i candidati. La Toscana fu la prima ad inserire questa legge vergogna e ad oggi nessuno ancora vi ha messo mano per cambiarla. Nemmeno a livello nazionale, dove il Presidente del Consiglio toscano parla di partecipazione del popolo al processo democratico e alla selezione della classe dirigente, salvo poi garantire posti chiave ai suoi fedelissimi con listini bloccati e accordi di potere (gli attuali vice presidente della Regione e vicesindaco di Firenze, Saccardi e Nardella, ad esempio).
Rimane poi il voto per i Comuni. Qui i cittadini potranno ancora scegliersi i Sindaci. Ma se i candidati sapessero quanto i Comuni sono svuotati di risorse, quanto le politiche sui servizi pubblici sono decise da aree sempre più vaste, e quante responsabilità pendono ogni giorno sulle loro teste, allora senz’altro le vocazioni calerebbero di netto. È notizia di queste settimane l’alta percentuale di rinunce di primi cittadini già dopo il primo mandato. E non è senz’altro un caso.
Nel 1860 la Toscana andò al voto per scegliere se aderire allo Stato del Regno di Sardegna o rimanere Stato indipendente, dopo la cacciata del Granduca. Votarono in massima parte per la prima opzione. Ma la campagna elettorale fu comunque vivace. A San Quirico d’Orcia, ad esempio un mio lontano avo, Leopoldo Zamperini, contrastò come poté la politica unitaria dell’allora uomo forte di Toscana, Bettino Ricasoli, perché, diceva, «il padrone è meglio averlo vicino».
L’anno successivo lo stesso Ricasoli, primo presidente del Consiglio dell’Italia unita, forse memore di questi slogan, nella discussione sul nuovo ordinamento amministrativo del Regno, in un intervento alla Camera, disse che il Regno «dovrà essere fondato sulla rappresentanza elettiva di tutti gli interessi legittimi. Il Comune, naturale e primo nucleo d’interessi dell’umana società, dovrà essere costituito con le franchigie che a lui sono proprie. Succede la Provincia, che dovrà avere pure un’amministrazione propria e formerà un altro centro a cui faranno capo tutti gli interessi provinciali». Con cipiglio autoritario, il Barone di Ferro troncò ogni discussione sulla creazione delle Regioni, senza lasciare spazio a nessuna forma di decentramento amministrativo.
Da allora e per 110 anni (fino al 1970) l’Italia è stata organizzata, in ogni sua articolazione territoriale proprio come volle lui, in Comuni e Province. Quella ossatura dello Stato e della futura Democrazia italiana fu merito di un presidente del consiglio toscano che, con nettezza, scelse questa strada. Oggi un suo discendente, che di Ricasoli pare averne ereditato una certo cipiglio autoritario, ha scelto l’altra strada. Io sto con Bettino.
Ah, s’io fosse fuoco