Siena capitale europea della cultura. Un progetto, un auspicio, una competizione. Una sfida che la città ha avviato soprattutto con se stessa, non più – o, almeno, non solo – per compiacersi (è il vezzo che da sempre le viene facile) ma per mettersi finalmente in discussione. Sembrerebbe finito il tempo della manutenzione ordinaria del passato, a tutto vantaggio di una prospettiva, lungo la quale si intenderebbe re-intrerpretare la città, le peculiarità che le sono proprie. Rifornendola, perciò, di idee, motivazioni, risorse economiche e intellettuali, di fiato lungo e non dopato. Se la comunità senese ambisce a proporsi come capitale della cultura, il primo atto che le viene richiesto è proprio quello di attuare un’operazione culturale su se stessa. Ovvero di cambiamento di mentalità, di metànoia dicevano gli antichi greci per definire una radicale trasformazione nel modo di pensare e di vedere le cose. La parola piacque a tal punto al cristianesimo da farne sinonimo di “conversione”. Ebbene, sono auspicabili certe conversioni anche nella “città degli uomini”, nella res publica. Non esiste, però, mutamento che possa prescindere da un processo culturale. Allorché le menti vanno a (in)formarsi – si mettono in rete, per usare un termine consueto – con quanto sia loro diverso e affine, noto e sconosciuto, logoro e immutabile, particolare e universale. Tale è l’auspicabile conversione a fronte di un patrimonio condiviso (materiale e immateriale) da porre, oggi per domani, nella disponibilità delle generazioni future. D’altra parte, come ebbe a dire Franco Fortini in una lezione magistrale tenuta all’Università per Stranieri quasi 25 anni fa, “il discorso sulla immagine convenzionale di Siena si è mutato in quello, assai temibile, della eredità”. A questo proposito il grande intellettuale si chiedeva in quale modo i più giovani vedessero (e vivessero) la città, in considerazione del fatto che una sua rappresentazione possa – debba, ci mancherebbe! – conservarsi, “ma come un documento o un cimelio; non crederla vera”. Analisi acuta e, volendo, trasformabile in programma di governo. Evitando, magari, la solita solfa di quel “buon governo” che è, certo, un capolavoro dell’arte, ma anche uno sfacciato manifesto di demagogia. Un governo, dunque, senza aggettivi. Di soli sostantivi, anzi di sostanza. Nel frattempo si avvertano i diretti interessati che i cadreghini del potere (o presunto tale) sono tarlati, i forzieri svuotati, gli dèi adirati. E si dica alle scolte che ogni notte montano guardia alle antiche mura che oggi le disfide si vincono lasciando le porte aperte.