Khaled guarda la telecamera con i grandi occhi allagati di tristezza. La giornalista, con le sue domande, cerca continuamente di spingerlo per la china della retorica, lui ne risale sostenendosi alla dignità. È un servizio televisivo sui migranti “illegali” che ad ogni raccolta di pomodori, olive, arance, meloni formano, nelle terre del Sud Italia, il disperato esercito di braccianti agricoli, in scacco al caporalato e allo sfruttamento. Numeri impressionanti. Si parla di 35mila persone, una folla di invisibili. Khaled è ghanese, sta raccogliendo pomodori nelle campagne di Foggia, sulla piana dell’oro rosso. Sveglia quando è ancora buio, dieci ore di lavoro, schiena piegata e, all’occorrenza, già in posizione per la spranga del sorvegliante-aguzzino. È pagato “a cassetta”, 3 euro e mezzo per una da mezza tonnellata. La notte preferisce dormire sotto un albero. Meglio stare così, all’aria aperta, rannicchiato nel proprio lezzo, che nel tanfo sommatorio di altri 50 uomini, dentro un capannone privo di servizi igienici, elettricità e acqua corrente. Si è registrato anche un caso di morte per dissenteria. Racconta che lui si addormenta cantando mentalmente una canzone ghanese. Sorta di unguento per le fitte alla schiena e all’anima. Sempre a beneficio di telecamera viene invitato ad accennarne il motivo: struggente come il limio della nostalgia. La nenia – colmando un immenso scarto di tempo, storia e storie – fa tornare alla mente un’altra canzone a noi nota. Quella “Maremma amara” che racconta di ben diverse (ma non meno drammatiche) vicende umane e di lavoro. Le ottocentesche migrazioni stagionali verso la bassa Toscana, terra della fortuna e dell’avventura (all’epoca, un’America più a portata di mano) dove si rischiava di morire per malaria (“L’uccello che ci va perde la penna / io c’ho perduto una persona cara”). In una pagina del senese Giovanni Battista Corsi troviamo un efficace racconto della specie di tratta che procacciava braccia ai lavori in Maremma. Si parla di “uomini vecchi e giovinetti… male andati parecchio”, di “un capoccio, che poi li fissa, il quale, non lavorando, ruberà di certo la miglior parte del guadagno di quei poveretti… persino contenti”. Sarà lo stesso Corsi a riportare uno stornello che faceva triste sintesi dell’esperienza maremmana: “So’ stato alla maremma di Grosseto, / Le male spese m’hanno consumato. / Da bere m’hanno dato dell’aceto / E da mangiare un po’ di pan muffato”. Altri tempi, potrebbe direbbe qualcuno sapendo di mentire. Perché la canzone con cui si prova a lenire soprusi, fatica, nostalgia, ancora troppo è cantata in tutte le lingue del mondo.