Ammettiamolo. Chi di noi non ha fantasticato di trovarsi, a sera, sulla sedia a dondolo in una di quelle verande del vecchio West affacciate sulla prateria. E da lì immaginare la frontiera, o, meglio, il suo mito romantico che nel segnare (e spostare di continuo) un “oltre” e un “al-di-qua”, stabiliva, così, confini identitari, di progresso e persino di felicità. Dunque, dondolarsi nel sogno (“sogno americano”, giustappunto) e, come accade negli sprofondi onirici, trovarsi, sincroni e affannati, in mezzo a mandrie, sceriffi, pellirossa, predicatori completamente bevuti che mentre tu sei alle prese, lacciolo dietro lacciolo, a conquistarti le nudità di una bella fanciulla, loro maledicono ogni forma di goduria con i versetti più tremendi dell’Apocalisse. E poi il treno, a spingere la pianura e il nuovo mondo; i fili del telegrafo a ronzare sull’imminenza di chissà quale notizia; i giornali che trasformano la vita in fatti.
Insomma, può essere capitato a chiunque (se non altro per contrappasso alla propria indole tranquilla e timorosa) di sentirsi un po’ cowboy, magari come Il Virginiano (1902) di Owen Wister. Personaggio di un romanzo (poi film) considerato l’iniziatore di un genere. Lui che sogna un’esistenza serena nella sua terra, insieme alla dolce e tenace Molly. Ma che dovrà fare i conti con persone prepotenti e senza scrupoli. Eh già, la lezione di vita del Virginiano ci piacque assai. Bella prova quella del mandriano che non si lascia incantare dalle mollezze della civilizzazione e resta caparbiamente attaccato alle proprie radici, ad un West che è una sorta di modello morale: rude ma puro. In otto mesi, il romanzo di Wister ebbe quattordici ristampe, a testimonianza che quel filone letterario rispondeva indubbiamente ai gusti del pubblico. Tant’è che sullo stesso modello wisteriano (e westerniano) nasceranno diversi autori. Tra questi un tale Pearl Zane Gray, destinato a diventare il più popolare narratore del genere. I suoi racconti alimentarono l’immaginazione di noi ragazzi fino a farci credere che il Far West fosse in assoluto “l’altrove” in cui rifugiare le nostre fantasie. E prendevamo sonno girati verso Ovest, quasi a propiziarne il suo notturno miraggio. Dalle pagine di Zane Gray (ricorderete Il cavallo selvaggio) imparammo tutta una geografia di terre e di sentimenti compresi in quella valle che tra le montagne e “il verde ondeggiante dell’altipiano immenso pareva pendere da un lato all’altro dell’orizzonte”. Prosa banale, direte. Ma tale è la lingua dei sogni: figuriamoci, poi, se sono americani.