Via libera negli Usa alla cura del coronavirus con l’utilizzo dell’anticorpo monoclonale. Una terapia su cui l’Italia ha puntato dalla scorsa primavera grazie all’intuizione dello scienziato senese e direttore scientifico di Gsk Vaccines Rino Rappuoli, Head of External R&D di Gsk Vaccines e coordinatore del progetto di ricerca sugli anticorpi monoclonali a Toscana Life Sciences. Uno studio che ha permesso di isolare l’anticorpo MAD0004J08, scelto tra i 3 migliori selezionati a luglio in un campione di oltre 4mila estratti dal sangue dei pazienti guariti da coronavirus. Anticorpo che a detta di Rappuoli «è più potente» di quello americano. Ma nelle parole dello scienziato senese, alla vigilia del conferimento del Pegaso d’Oro della Regione Toscana insieme al presidente di Toscana Life Sciences Fabrizio Landi, non c’è nessuna invidia per il risultato dei colleghi americani.
Cosa pensa del via libera negli Usa all’utilizzo degli organismi monoclonali per la cura del Covid?
«E’ un fatto che non fa altro che confermare che l’approccio utilizzato in Tls sia giusto; fa molto piacere, dà certezze sul suo funzionamento. Il fatto che questa grande azienda americana sia più avanti di noi non mi preoccupa per niente, il mondo avrà bisogno di molti milioni di dosi e non c’è nessun produttore al mondo che potrà produrre tutte queste dosi. Le dosi di Eli Lilly avranno come destinazione prioritaria gli Stati Uniti poi verranno gli altri Paesi, quindi se vogliamo essere sicuri in Italia di avere queste dosi è bene che ce le facciamo da noi. Quindi è una conferma che l’approccio che stiamo seguendo è quello giusto ed uno stimolo ad andare più veloci. E’ chiaro che la Eli Lilly è andata in clinica prima di noi con quelli che noi chiamiamo anticorpi di prima generazione, cioè quelli che non erano potenti quanto quelli che abbiamo cercato noi, definiti di seconda generazione, e che speriamo siano ancora meglio».
L’Agenzia del Farmaco italiana (Aifa) può seguire le orme della Food and Drug Administration (Fda) che ha permesso l’uso della terapia in America?
«Questa pandemia giustifica l’utilizzo di vaccini e di anticorpi ma anche di farmaci in modo accelerato. Per fare vaccini e anticorpi di solito ci vogliono molti anni, in questo caso siamo riusciti a fare il vaccino in meno di un anno e anticorpi in poco più di sei mesi. Con l’esperienza che abbiamo questi anticorpi possono essere utilizzati senza rispettare l’iter burocratico che di solito si fa per approvare i farmaci. Negli stati uniti questo iter è previsto in caso di emergenza e si chiama EUA (Emergency Use Application) per mettere a disposizione il prima possibile i farmaci per chi ne ha bisogno. In Europa esistono simili meccanismi e quindi sono sicuro che con l’Aifa troveremo il modo di trovare lo stesso tipo di approvazione. Appena abbiamo i dati della clinica che dimostrano che funzionano».
Voi sareste già pronti?
«Siamo un paio di mesi in ritardo rispetto alla Eli Lilly nella prova clinica, dobbiamo aspettare un po’ di più. Dobbiamo finire di produrre il materiale che viene prodotto da Menarini a Pomezia e poi fare la prova clinica».
Quando pensate di essere pronti quindi?
«Il nostro target è di essere pronti a marzo e stiamo rispettando i tempi»
Sempre negli Usa il vaccino Pfizer ha dimostrato la sua efficacia, cosa ne pensa?
«E’ una notizia fantastica. All’inizio di questa pandemia tutti hanno detto di tutto e c’era molto scetticismo che si potessero fare vaccini efficaci in tempo così breve. Grazie alle nuove tecnologie e ai grandi investimenti soprattutto nel settore pubblico, Stati Uniti in prima linea con oltre 10 miliardi di dollari spesi, ma anche Europa e Inghilterra, siamo riusciti a fare un vaccino in meno di un anno. Questa notizia è molto importante perché tutti i vaccini che sono in produzione sono basati sullo stesso antigene che si chiama spike, compreso quello della Pfizer che ha dimostrato l’efficacia del 90%. Il fatto che questo vaccino funziona vuol dire che in teoria tutti gli altri vaccini funzioneranno. Siccome ci sono 6 o 7 vaccini in sviluppo solo nel mondo occidentale più altri 5 o 6 tra Russia e Cina, questo significa che l’anno prossimo potremo avere tanti vaccini per immunizzare più gente possibile nel mondo contro questo virus».
In questa corsa al vaccino l’Italia è un po’ indietro?
«L’Italia fa parte del gruppo europeo che ha prenotato il vaccino del gruppo di Pfizer, del vaccino di Sanofi e Gsk e di un altro ancora. Non credo che l’Italia sia indietro rispetto ad altri Paesi. Oltre a questo c’è un vaccino che viene prodotto esclusivamente in Italia, il vaccino di ReiThera».
Era ipotizzabile una seconda ondata così forte e dove si è sbagliato?
«Non solo era ipotizzabile ma era una certezza. Il fatto che fosse forte o debole non era prevedibile perché non dipende dal virus ma dai comportamenti della gente. Nel mondo occidentale e in Europa ci siamo rilassati completamente durante l’estate e abbiamo dato la possibilità al virus di inserirsi subdolamente nella popolazione. Questa seconda ondata è una conseguenza non del virus ma dei nostri comportamenti».
Ci sono stati degli errori anche a livelli più alti nella gestione di questa seconda ondata?
«Difficile da dire. Essenzialmente tutti sapevamo che questa seconda ondata sarebbe ritornata. Se qualcuno dice “dovevano costringerci a stare in casa” significa che non siamo maturi come Paese».
Secondo il suo parere è necessario il lockdown totale in Italia? O era necessario anche prima?
«Io sono contrario a lockdown totali. Sappiamo che usando la mascherina, mantenendo le distanze, non facendo affollamenti, lavandosi le mani, il virus può essere controllato. Preferirei che prendessimo coscienza di questo e evitare di chiudere le fabbriche, bloccare l’economia solo perché non siamo capaci di comportarci bene»
Nei giorni scorsi la Regione Toscana ha annunciato di non aver ricevuto da Gsk il ‘quinto d’obbligo’ del vaccino antinfluenzale (in ogni gara il fornitore è tenuto a garantire il 20% in più rispetto a quanto previsto per far fronte a necessità sopravvenute, ndr).
«Io faccio ricerca, non mi occupo degli aspetti commerciali. Quello che so è che quest’anno il Covid ha convinto tantissima gente a vaccinarsi contro l’influenza. La richiesta di vaccini antinfluenzali nel mondo, non solo in Italia, è stata di quattro cinque volte superiore rispetto a quella dell’anno precedente. Noi e tutte le altre industrie che facciamo i vaccini antinfluenzali abbiamo la flessibilità e gli impianti per fare il 120-150% della produzione dell’anno precedente ma non la possibilità di fare il 400-500%. E’ molto difficile quest’anno fornire abbastanza vaccino per tutti coloro che lo vorrebbero perché non è possibile produrlo».
Sul mondo della ricerca da mesi c’è una forte attenzione mediatica, è una sovraesposizione che fa male o bene al vostro settore?
«E’ una cosa buona se non si esagera. In un momento di emergenza come questo la gente e i media si rendono conto di quanto sia importante la ricerca nel nostro Paese e avere gruppi di scienziati che sono competenti e che lavorano per trovare soluzioni alla pandemia. La ricerca è quella cosa che produce risultati che migliorano la qualità della vita, è quella cosa che crea posti di lavoro qualificati di cui abbiamo tanto bisogno nel nostro Paese evitando che tanti giovani siano costretti ad andare all’estero per lavorare».
Quindi secondo lei si sta esagerando?
«Adesso sì, ne parliamo anche troppo, si parla solo di questo. Io sento il dovere di comunicare ma non posso passare tutto il tempo a comunicare perché devo anche lavorare. Ci vuole un equilibrio giusto».