Qualora non fosse già stato fatto, occorrerebbe scrivere un libro su un sentimento ben preciso. Quello che quotidianamente, nel momento in cui la notte convince se stessa a farsi notte, avvertono gli esseri umani, allorché il tremore di una fine se pur transitoria fa sentire il bisogno di essere accolti da persone e mura calde di affetti. E’ l’ora nella quale anche lo squallore delle periferie urbane pare bello, percorso com’è da una invisibile pietas verso la condizione umana. Tintinnano le stoviglie dei dopocena. Le finestre si accendono e spengono nella replica dello stesso film che così, alla buona, incrocia piccole anonime storie con la storia.
Ecco che da quelle nicchie domestiche, da tanto minimo e rassicurante vivere è finalmente possibile percepire il mondo non più come avverso, ma sodale alle nostre esistenze. Ci è dato un facile tempo per amare i lontani, i diversi, tutti coloro che (altrove e in altri momenti) sono magari percepiti come minaccia. E’ allora che il particulare del nostro microcosmo si riflette sui vetri dei televisori, quasi a confondersi nel baluginio della globalità. La pacifica risacca della notte, onda dopo onda, ci sottrae i margini della insularità per farci un tutt’uno con il mondo. E qualsiasi ultima resistenza (in verità esercitata nello sprofondo di un divano) cede alla consapevolezza di essere universali.
Dai palchetti delle librerie occhieggiano all’istante gli autori le cui pagine furono da noi compulsate in trascorse stagioni e che oggi offrono ancor maggiori ragioni al cuore. Claude Lévi-Strauss con la sua antropologia tesa a cogliere le strutture profonde, a-temporali dell’universo, dove (guai agli etnocentrismi!) ogni cultura può realizzare solo alcune delle potenzialità insite nell’umanità. E poi l’opera di Ernst Bloch, quasi un’invocazione continua a “ciò che non c’è ancora”, ovvero a quell’uomo “inedito” che ha da manifestarsi e che, secondo il filosofo tedesco, racchiude una speranza dal carattere conoscitivo e veggente, concreta e rivolta più al presente che al futuro. Perché tale è l’ideale utopico per eccellenza: ritrovare noi stessi in una collettività.
Nell’epoca, dunque, in cui si temono collisioni di civiltà, di culture ormai scalzate dall’inarrestabile processo di planetarizzazione dell’uomo, può trovarsi un simbolico momento di pacificazione (con se stessi e con gli altri) sul limitare di ogni notte. Quando cioè è tempo di quiete e di un auspicato domani. Non importa se fuori sia buio pesto. Rammentava giusto lo stesso Bloch che “ai piedi del faro non può esserci luce”.