In questi giorni una consistente guarnigione di ragazzi giunti al termine del loro ciclo di studi superiori, si è chinata sui banchi di scuola a rimuginare, tra le altre cose, le pagine de “Il sentiero dei nidi di ragno”, romanzo d’esordio (1947) di Italo Calvino, ambientato al tempo della seconda guerra mondiale e della Resistenza partigiana. Un racconto neorealista svolto dal punto di vista di un ragazzino, escamotage che consente all’autore di narrare il vero contaminandolo al mito e al fiabesco. Anche per Pin, il giovanissimo protagonista, è un esame di maturità. E bella è la lezione che si ricava dalle parole del partigiano Kim: «Forse non farò cose importanti, ma la storia è fatta di piccoli gesti anonimi, forse domani morirò, magari prima di quel tedesco, ma tutte le cose che farò prima di morire e la mia morte stessa saranno pezzetti di storia, e tutti i pensieri che sto facendo adesso influiscono sulla mia storia di domani, sulla storia di domani del genere umano».
Come sappiamo, assai oltre il libro degli inizi giunse Calvino: per la particolarità del suo stile, per la padronanza degli artifici narrativi uniti ad una scrittura tra le più nitide ed eleganti della prosa del Novecento.
Quest’anno, peraltro, ricorrono 30 anni dalla sua morte, avvenuta a Siena nella notte tra il 18 e 19 settembre 1985, allorché nella memoria di dolore dell’antico spedale di Santa Maria della Scala andò a iscriversi anche la fine della vicenda umana dello scrittore ligure. Era stato ricoverato d’urgenza a seguito di una emorragia cerebrale. L’ictus lo aveva colto nella sua casa di Castiglione della Pescaia mentre stava lavorando alle “Lezioni americane”. A chi in ospedale lo accudiva trovò il modo di dire che non sapesse dove si trovava, ma che l’atmosfera che respirava gli pareva quella di Siena. La città – aveva scritto una volta – «le cui immagini sono così soverchianti e prepotenti da non lasciare un margine di spazio e di silenzio».
Chissà per quali “destini incrociati”, Calvino (nato a Santiago de Las Vegas, Cuba, nel 1923) sarebbe dovuto morire a Siena. Forse perché Siena poteva benissimo somigliare a qualcuna delle sue immaginarie “Città invisibili”. Opera che oscilla tra il racconto filosofico e quello fantastico-allegorico e che, non a caso, Pietro Citati ebbe a definire «parabola morale e allegoria metafisica». Città invisibili e di sogno in cui la complessità del mondo e dei suoi accadimenti si trasfigura in rarefatti luoghi mentali, svincolati dal tempo e dallo spazio.
Quando proprio in quel libro si va a leggere il capitolo dedicato alla città di Zaira, a tratti sorge spontanea la vista di Siena: «Inutilmente magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati…; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato…». La rappresentazione fantastica del luogo prosegue e alimenta ancora una coincidenza di vedute e percezioni con la città del Palio: «di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata». E avverte infine il raccontatore: «Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, virgole».
Suscita forte emozione rileggere questa pagina e immaginare Calvino, dietro gli “alti bastioni” del Santa Maria della Scala, perso in un sonno che non conobbe risveglio. Le suggestioni letterarie vanno a sovrapporsi al ricordo di quando si diffuse la notizia che l’autore del “Barone rampante” era deceduto. Forse in pochi notarono la concomitanza. Sui tetti di Siena volava una coloratissima mongolfiera. E fu davvero inevitabile non pensare al calviniano Cosimo di Rondò che per sfuggire a una punizione si rifugia su un albero e si costruisce, per conto suo, un mondo aereo. Sceglie una modalità ostinata e bizzarra per osservare dall’alto quanto accadesse sulla terra. Così trascorrerà tutta la sua vita, finché in punto di morte, si aggrappa alla fune di una mongolfiera e scompare attraversando il mare: «L’agonizzante Cosimo, nel momento in cui la fune dell’ancora gli passò vicino, spiccò un balzo di quelli che gli erano consueti nella sua gioventù, s’aggrappò alla corda, coi piedi sull’ancora e il corpo raggomitolato, e così lo vedemmo volar via, trascinato nel vento, frenando appena la corsa del pallone, e sparire verso il mare…». Qualcosa di molto simile accadde a Siena il 19 settembre del 1985.