In tutte le guerre, a vincere è solo la guerra. E nella guerra si perdono vite umane, piccoli e grandi beni, ragioni d’esistere. In questi giorni giungono notizie terribili dalla Siria, dove, al quarto anno di guerra civile, la situazione umanitaria è diventata insostenibile. Sul web circola una foto che mostra, fuori dal campo profughi di Yarmuk, una folla – una stipata umanità di stracci, fame e disperazione – in attesa di una razione di cibo. Amnesty International denuncia che: “Assad usa la fame come strumento di assedio, impedendo l’ingresso di cibo e aiuti umanitari nel campo”. I siriani colpiti dal conflitto sono 9,3 milioni, di cui 5,5 milioni bambini bisognosi di assistenza. Già ne sono morti più di 10mila, oltre 8mila hanno raggiunto i confini della Siria senza genitori; 3 milioni (il 40% di quelli in età scolare) non vanno a scuola, anche in considerazione del fatto che ben 4.072 edifici scolastici sono stati distrutti o occupati come rifugi. E ancora. Bambine date in spose a uomini ricchi e viziosi, ragazzini trasformati in cecchini. Non a caso l’Unicef ha pubblicato un rapporto intitolato “Sotto assedio: una generazione perduta”. Notizie da evitare nei telegiornali, poiché, per contrasto, confermerebbero la vacuità delle cronache di casa nostra. Eppure tutto ciò accade a un miglio e mezzo dall’Italia. Per un tour operator quasi una scampagnata fuori porta. Del dramma siriano arrivano da noi anche testimonianze letterarie. Come il libro autobiografico di Mustafa Khalifa La conchiglia. I miei anni nelle prigioni siriane (Castelvecchi, 2014; traduzione di Federica Pistono). Khalifa ha trascorso tredici anni nelle carceri siriane, perché ritenuto un Fratello Musulmano, nonostante il suo essere di origini cristiane e, per giunta, ateo. La conchiglia è la cella dove, con altre cento persone, è stato rinchiuso per anni, torturato, umiliato. Oggi, da uomo libero, continua a vivere in un’intima “conchiglia di solitudine” da cui non smette di chiedersi cosa (e perché) stia succedendo in Siria. Domande non dissimili da quelle che troviamo nelle sofferte liriche del siriano Golan Haji, contenute nella raccolta L’autunno, qui, è magico e immenso (Il Sirente, 2013; traduzione di Patrizia Zanelli). Il poeta confida i suoi sentimenti di esule che vive come una colpa trovarsi lontano da “una storia dove manchi”. Vede nel bianco del proprio occhio “una macchiolina di sangue arrugginita / simile a un sole che tramonta lontano / su un campo di neve / calpestato da lunghe file di soldati affamati”. Un sentimento, triste ma indomito, cova dentro lui (e dentro noi) come in uno “scrigno di dolore”.