Sere fa, nelle soporifere e inconcludenti ore che condannano alla tele-visione, fui graziato (potremmo dire, doppiamente) dalla Medea cinematografica di Pier Paolo Pasolini (1970). E, dinanzi al magnetismo di Maria Callas, interprete di una Medea pienamente cosciente della sua tragedia, il telecomando non osò altre divagazioni.
Il racconto di Pasolini procede in modo didascalico, ma coglie bene il tema che va a riassumersi nella cupa, feroce, fragile, straziante figura di quella donna. Ovvero l’inconciliabile coesistenza di identità diverse, ma che sarebbero complementari ad un loro reciproco compimento. Dramma di oggi, dunque, quello di Medea: straniera in terra straniera, emblema della alterità/diversità, del confronto/scontro di civiltà. Lei, donna sapiente, disposta a tutto per amore verso il greco Giasone (vanesio e opportunista come tutti i maschi), diverrà vittima della “paura dell’estraneo” e, per vendetta, si trasformerà in accecata carnefice fino all’uccisione dei propri figli.
Il mito di Medea ha visto, nel tempo, svariate versioni letterarie. In epoca moderna è da ricordare quella di Franz Grillparzer (1821), che grazie ad una splendida traduzione in italiano di Claudio Magris (Marsilio, 1994) si mostra a noi in tutta la sua impressionante attualità. Basti citare il passo in cui Medea, infelice e discriminata esule, prevede anche per i figli, un futuro di emarginazione: “Avranno dei fratellastri che li copriranno di scherno, che si faranno beffe di loro e della loro madre, quella selvaggia della Colchide. Si adatteranno a fare i servi, a essere schiavi, oppure la rabbia e il livore roderanno loro il cuore e li renderanno malvagi, facendoli provare orrore di se stessi”.
Tanto è il male perpetrato nei confronti della “straniera”, da ridurla ad “estranea” anche verso se stessa. Sarà sconfitta e umiliata dall’astuta malvagità degli uomini, annientata nei suoi affetti, nella sua natura di madre; e, quindi, trasfigurata in furente omicida. Ma come avrà modo di dire lo stesso Magris, “nessuno è così vittima come chi viene straziato al punto di perdere la sua umanità”. E’ un po’ la tesi che perseguì pure Corrado Alvaro nel sua dramma Lunga notte di Medea (1949) dove la colpevolezza tende a spostarsi sull’estremismo discriminatorio dei Corinzi.
Incredibile è, comunque, come riecheggi dentro i secoli e ancora nei nostri giorni una tragedia tutta declinata al femminile. Un dramma (un atroce sogno) che vorremmo relegato agli àmbiti speculativi della psicoanalisi e dell’antropologia, ma – gli dèi ce ne guardino – non a quelli della storia.