«Come argomento lo attraeva soprattutto la storia, perché nella storia c’è sempre qualcosa di sbagliato».
E’ solo una frase, tra le tante in cui mi sono soffermato in questo libro che è come un fiume in piena di dialoghi incalzanti e frasi taglienti come se fossero state incise con un bisturi nel corpo vivo degli eventi. Solo una frase, ma dice già molto dell’atmosfera che si respira accettando la sfida che Gore Vidal lancia con “L’Età dell’oro” (Fazi editore).
Romanzo sulla storia degli Stati Uniti tra il 1939 e il 1954, dalla seconda guerra mondiale alla guerra di Corea. Ma soprattutto romanzo sul potere, sulla verità del potere, sulle falsificazioni del potere.
Proprio in questi anni gli Stati Uniti si affermano come assoluta potenza mondiale e lo fanno non solo con gli eserciti, anche con la loro economia, con il loro stile di vita. Ma questo non è un romanzo su una nazione, non mette in scena un popolo. Gore Vidal va al cuore dell’America, entra dentro la Casa Bianca, sembra abbia piazzato microfoni ovunque per registrare e svelare.
Questi sono anche gli anni in cui i mass media diventano decisivi, in cui i grandi eventi della politica rispondono a una attenta regia. La politica è sempre più non ciò che si fa o si pensa ma ciò che si riesce a far credere. Ed è in questo contesto che Gore Vidal si muove a suo agio come un pesce in acqua, per raccontare ciò che si vede e soprattutto il modo con cui si fa vedere. I suoi microfoni nelle stanze del potere fanno il resto: e svelano intrighi, ambizioni, debolezze.
Come un entomologo, alle prese con i suoi insetti, Vidal studia, analizza, classifica. Eppure senza il distacco che attribuiamo all’entomologo. Lui la pensa come Tolstoj: «La storia sarebbe una gran bella cosa, se solo fosse vera». Solo che ci si può appassionare, al gioco della verità. E non smettere più.