Sono trascorsi due anni esatti da quando il mandate agreement fra banca Mps e banca Nomura per la ristrutturazione del derivato Alexandria fu ‘misteriosamente’ scoperto da Fabrizio Viola nella cassaforte del suo predecessore Antonio Vigni. Era il 10 ottobre del 2012 ma il conto salato della ristrutturazione fu chiaro al board di Rocca Salimbeni solo a fine novembre quando una mail inviata da un dirigente della banca giapponese identificava il costo dell’operazione in 200 milioni di euro. Due anni esatti di acqua sotto i ponti, di colpi di scena giudiziari, testimonianze, pagine di giornali prima dell’ultima udienza, quest’oggi, che apre le porte alla sentenza fissata con ogni probabilità per il 31 ottobre dopo le repliche dei magistrati alle arringhe dei difensori.
Richiesta d’assoluzione Chiesta l’assoluzione piena per Giuseppe Mussari, Antonio Vigni e Gianluca Baldassarri a cui è contestato il reato di ostacolo all’autorità di vigilanza e per i quali i Pm titolari dell’inchiesta Antonino Nastasi, Aldo Natalini e Giuseppe Grosso hanno chiesto 7 anni di carcere per l’ex presidente e 6 anni per l’ex Dg e l’ex capo area finanza di Mps. Il Giudice Leonardo Grassi è chiamato a decidere e a mettere un primo tassello definitivo sulle vicende giudiziarie che, oltre a quelle finanziarie, hanno avvolto Rocca Salimbeni.
La difesa Mussari e la «suggestione» della cassaforte Oggi la parola alle difese di Mussari e di Vigni che, durante le arringhe, hanno giocato le carte dell’insussistenza di prove e di un capo d’imputazione mal formulato puntando più volte il dito contro altri attori della vicenda sempre interni alla banca senese e, soprattutto, contro Bankitalia rea di non aver condotto a dovere il proprio compito di vigilanza. L’avvocato Fabio Pisillo, dopo aver impugnato le diverse testimonianze fornite in aula, ha parlato di «suggestione» intorno alla cassaforte «che è luogo di custodia e non di nascondimento». Il difensore di Mussari ha poi evidenziato: «se avessi qualcosa da nascondere alla Gdf non lo metterei in cassaforte ma dentro un fascicolo polveroso di mio nonno». Lo stesso Pisillo ha poi evidenziato come «snodo della vicenda» il fatto che «Leonardo Bellucci (area risk management ndr) al momento delle ispezioni di Bankitalia non ha fornito come materiale il mandate agreement che non era nascosto».
La difesa Vigni tra fatti, documenti e miti L’avvocato Franco Coppi, lo stesso che ha salvato Berlusconi nel processo Ruby, era per la prima volta in aula a Siena per la difesa di Antonio Vigni. La sua arringa è stata una ‘lezione’ di diritto civile e penale durante la quale ha scandagliato l’articolo 2638 del codice civile dal quale parte il capo d’imputazione. «L’articolo parla di fatti e il mandate è un documento» ha sottolineato più volte Coppi. Anche per questo motivo il capo d’imputazione secondo l’avvocato «è monco» chiedendo poi al presidente del collegio: «si può parlare di occultamento fraudolento quando il documento in questione era custodito in una cassaforte di una banca che dovrebbe essere piena di cassaforti?». Alle parole di Coppi hanno fatto eco quelle dell’altro difensore di Vigni, l’avvocato Enrico De Martino: «occorre sfatare il mito che ha aleggiato il processo secondo cui senza il mandate nessuno avrebbe potuto portare a termine l’operazione di ristrutturazione di Alexandria».
Due spunti e accapo Il 31 ottobre sono ora attese le repliche dei Magistrati e soltanto dopo il Collegio si riunirà in camera di Consiglio. E’ presumibile che arrivi così lo stesso giorno la sentenza. I tre moschettieri Nastasi, Natalini e Grosso contro la triade Mussari, Vigni e Baldassarri. Resta l’attesa di sapere se la notte di Halloween stapperanno spumante in tribunale o, non è certo da escludere, un cavaliere si aggirerà libero nelle Crete Senesi, un ‘coltivatore diretto’ (autocit) festeggerà nella villa di Castelnuovo Berardenga e un genio della finanza creativa celebrerà in un attico milanese. Pochi giorni ci separano alla sentenza: dolcetto o scherzetto per gli imputati?