E’ anche questa la parola scritta, una chiave per spalancare la porta di un tempo che non si è mai vissuto e che solo così, appunto, ci può essere restituito. Spalancarla non per restare sulla soglia, accontentandosi di un’occhiata. Ma per entrare dentro e sentirla tutto intorno.
Giorgio Fontana è nato nel 1981 ed è in quell’anno che colloca la storia che racconta in “Morte di un uomo felice” (Sellerio). Milano, estate che appartiene ancora ai cosiddetti anni di piombo, con la sua scia di sangue. Giorgio Fontana posa il suo sguardo attento, schivo, partecipe su un magistrato sulla linea del fronte. Giacomo Colnaghi, così si chiama, che sta indagando sull’organizzazione terroristica che ha ammazzato un noto esponente politico.
Detta così, gli ingredienti sono quelli del noir italiano, forse del romanzo di azione. E invece siamo completamente fuori dalle regole del genere. Perché è molto altro a catturare la nostra lettura. E in primo luogo proprio la figura complessa di questo magistrato, col suo senso del dovere e con le molte domande, con la sua religiosità che è dubbio, solidarietà, distanza dalle forme. Con la sua intima battaglia tra distacco e partecipazione.
C’è tanto passato che pesa, nella sua vita, a partire dall’uccisione del padre, uomo della Resistenza le cui idee non sono mai state assimilate in famiglia e che per il figlio è un’assenza che non è mai davvero riuscito a superare. Tanto passato che si proietta nel presente per farsi responsabilità e abbandono, possibilità di condividere la sofferenza e ripiegamento.
Verso una fine che non sarò anch’io a raccontare, ma che appartiene tutta alla nostra storia.