In un mondo tutto schiacciato sul presente (dove il passato è uno stipato retrobottega di robivecchi; il futuro un’ipotesi per la quale non vale la pena investire risorse nemmeno mentali) anche l’idea di “festa” (e di ciò che essa sottendeva) va ormai scomparendo. Così che la festa, persino da un punto di vista lessicale, è detta più sbrigativamente “vacanza”. Ed il rito collettivo di maggior impatto è la lunga processione di incarognite individualità che, a date fisse, si incolonnano lungo le autostrade. Ciò, del resto, risulta meglio funzionale alla produttività, al consumismo, alla “necessaria” fuga (non a caso occorre partire) dai problemi reali.
Perduto il senso del tempo e della storia, del feriale e dello straordinario, dell’utile e del disutile, dell’ordine e della trasgressione, la festa, dunque, non trova motivo di esistere. Perché essa rappresentava, appunto, una sospensione del tempo (una momentanea fuoriuscita) per ricollocarsi nel tempo stesso, per rinnovarlo e rigenerarlo. Era in questo modo che le comunità – attraverso riti e rappresentazioni – rifondavano la loro ragion d’essere, riproponevano le proprie origini, trasmettevano una memoria e un sentimento condiviso.
Laddove, oggi, tali usanze perdurano (o si reinventano) ci si dibatte tra l’ottusità di chi rivendica in termini discriminatori (se non addirittura razzisti) le proprie tradizioni e la sufficienza di coloro che quelle manifestazioni ritengono anacronistiche rispetto alla dimensione universale del nostro vivere. Eppure esisterebbe il giusto approccio per essere “glocal”, cioè per vivere (e condividere) intelligentemente il proprio specifico all’interno di una contemporaneità che fornisce “d’ufficio” una doppia cittadinanza: quella registrata all’anagrafe delle nostre origini e quella del mondo. La seconda non costituisce minaccia per la prima, ma, anzi, le offre una sua compiutezza.
Valga al proposito l’acuta considerazione di Andrea Camilleri, il quale a chi gli chiedeva se potesse aver senso oggi un evento come il Palio di Siena che spezzetta una già piccola città in tante piccole contrade, lui rispose: “Non è anacronistico, perché in fondo io sono felice che sia un sarto europeo a confezionarmi il vestito che indosserò. Però se la mia biancheria intima è del mio paese, io mi ci trovo più a mio agio dentro quel vestito, e quel vestito mi cade sicuramente meglio”. Ben venga dunque la sartoria internazionale e quanto di intimo-intimo possa starle sotto. Ridicoli, però, saremmo se volessimo girare il mondo con indosso solo quelle mutande.