Nel Regno Unito il 2016 sarà un anno di particolari fervori culturali. Ricorrono i 400 anni dalla morte di William Shakespeare. Un’opportunità – ha dichiarato David Cameron – per ricordare uno dei più grandi drammaturghi di tutti i tempi, ma anche e soprattutto per celebrare la straordinaria e incessante influenza di un uomo che “cavalca questo stretto mondo come un colosso” (la citazione d’autore è tratta dal “Giulio Cesare”). Il premier inglese non ha poi mancato di ricordare come al Bardo dell’Avon si debba una codificazione della lingua inglese (lessico, ortografia, grammatica) oltre ad avere arricchito la cultura universale di un patrimonio letterario eccezionale per ispirazione, fantasia, scandaglio dell’animo umano.
E come dargli torto. Se andiamo a leggere il teatro di Shakespeare vi è davvero racchiusa l’intera geografia dei sentimenti che nella storia e nell’esperienza dell’uomo si ripropongono continuamente. Amore, passione, gelosia, il dubbio, la lotta per il potere, la fugacità della vita e l’inesorabilità della morte, l’istanza etica, gli inafferabili moti della psiche, il paradosso e l’ironia. Del resto, come avverte Macbeth, mai dimenticare che “la vita è un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco e poi non se ne sa più niente. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, significante niente”.
Quasi un plagio Di grande interesse sono anche le fonti letterarie a cui Shakespeare ha attinto per i suoi capolavori teatrali. Tra questi ‘prestiti’ troviamo spesso storie, personaggi, tematiche presenti nella novellistica italiana. Ed è qui che il drammaturgo inglese – si presume per interposte traduzioni e adattamenti – incontra a suo modo l’universo senese attraverso un paio di opere. E’ cosa nota, infatti, che la trama de “La dodicesima notte” sia stata suggerita dalla commedia “Gl’Ingannati”, un lavoro collettivo prodotto dall’Accademia degli Intronati nel 1531 e rappresentato a Siena l’anno successivo, precisamente il 12 febbraio 1532, ultimo giorno di Carnevale. Giocosa era la commedia, così come il pretesto che ne aveva suggerito la stesura. Ovvero un ‘sacrificio’ goliardico inscenato la notte dell’Epifania, durante il quale gli uomini avevano bruciato (o fatto finta di bruciare) i pegni d’amore delle rispettive donne. Per essere risarcite dello sgarbo le signore avevano dunque preteso quella commedia che non a caso lusinga loro fin dal prologo: “Quanto ha di bello il mondo, senza dubbio, è oggi in Siena; e quanto ha di bel Siena si truova al presente in questa sala”. Sarà sempre nel prologo che si fa espressamente riferimento alla “notte di beffana”, cioè alla dodicesima notte dopo il Natale (“La favola è nuova e non altronde cavata che della loro industriosa zucca onde si cavorno anco, la notte di beffana, le sorti vostre…”). La vicenda procede tra equivoci, allusioni, tresche amorose ed esplicite situazioni erotiche. Tutto comincia quando la tredicenne Lelia, per sfuggire ad un matrimonio combinato, si traveste da ragazzo e fugge dal convento in cui è stata rinchiusa dal padre Virginio. Con il nome di Fabio va a servizio del cavaliere modenese Flamminio, del quale si invaghisce. Diviene il suo paggio, nonché postina dei messaggi amorosi che Flamminio invia alla ereditiera Isabella. Succede, però, che Isabella non disdegna l’avvenenza di colui che crede essere un paggio. E Lelia non respinge le avances, anche perché pensa in questo modo di allontanare Isabella dalla concupiscenza di Flamminio. A complicare ulteriormente la storia arriva Fabrizio, fratello gemello di Lelia. Da qui in poi è un susseguirsi di colpi di scena con scambi di persone e circostanze tipicamente boccacesche. La commedia senese, pubblicata a Venezia nel 1537, ebbe una grande diffusione in tutta Europa, a seguito delle molte traduzioni e adattamenti che se ne fecero. Lo studioso britannico Morton Luce ne elenca ben dodici versioni in diverse lingue. Nella versione shakespeariana de “La dodicesima notte” lo schema è sostanzialmente fedele a quello ideato dagli accademici Intronati.
Gli amanti senesi Altrettanto risaputo è come il “Romeo e Giulietta” di Shakespeare attinga pure esso dalla novellistica italiana, probabilmente dalla novella di Matteo Bandello, dove viene narrata la tragica vicenda dei due giovani veronesi. Già il vicentino Luigi da Porto aveva comunque raccontato di quell’amore bello e impossibile. Ma gli studiosi fanno risalire la prima versione della storia a Masuccio Salernitano, che nel suo “Novellino” (1476), alla novella numero 33, racconta di due amanti senesi, Mariotto Mignanelli e Gannozza Saraceni, sposatisi segretamente. Una straziante separazione è provocata dal fatto che lui deve fuggire da Siena perché colpevole dell’uccisione di un eminente concittadino. Lei, pur di non sposare un uomo imposto dalla sua famiglia, chiede a un frate un farmaco che la faccia sembrare morta. Meno conosciuta dagli eruditi è invece una simile vicissitudine che vede protagonisti ancora due amanti senesi, Ippolito Saracini e Cangenova Salimbeni, descritta da Scipione Bargagli nella raccolta di novelle intitolata “I trattenimenti di Scipion Bargagli dove da vaghe donne, e da giovani huomini rappresentati sono honesti, e dilettevoli giuochi: narrate novelle e cantate alcune amorose canzonette” edita a Venezia nel 1587.
E’ sempre sorprendente vedere come i rivoli della letteratura – e di ciò che essa racconta – percorrino ragguardevoli distanze, spariscano e riappaiano ovunque dai terreni carsici della creatività e della fantasia. Trovino fiumi di ben altra portata, dissetino conoscenza e divertimento, rigenerino le secche dell’anima. Facciano storia dalle molte storie. Perché giusto Shakespeare diceva che «c’è una storia nella vita di tutti gli uomini».